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Tribunale

'Ndrangheta, chiesti oltre due secoli di reclusione per i venti imputati dell'operazione Isola Scaligera

La più alta, trent'anni, per «Totareddu» Giardino, che è ritenuto il punto di riferimento nella gestione degli affari e ventisei anni per la moglie
L'aula bunker di Mestre dove si è tenuta l'udienza preliminare del processo
L'aula bunker di Mestre dove si è tenuta l'udienza preliminare del processo
L'aula bunker di Mestre dove si è tenuta l'udienza preliminare del processo
L'aula bunker di Mestre dove si è tenuta l'udienza preliminare del processo

Oltre due secoli di reclusione e poco più di 150mila euro di multa, per l'esattezza sono 238 gli anni di carcere che il pm Stefano Buccini della Procura distrettuale antimafia di Venezia ha chiesto per i venti imputati dell'operazione Isola Scaligera che hanno deciso di affrontare il processo davanti al collegio presieduto da Pasquale Laganà. E per tutti ha ritenuto sussistente l'aggravante dell'agevolazione mafiosa. Solo tre richieste di assoluzione (per Domenica Altomonte, Francesco Scino e Sandra Scino), la pena più alta, ovvero 30 anni e 30mila euro di multa per Antonio «Totareddu» Giardino ritenuto il capo indiscusso della locale scaligera di 'Ndrangheta, colui che rappresentava il punto di riferimento per la gestione degli «affari» della cosca descritto dall'ispettore della Mobile che prese parte all'indagine culminata nel giugno di due anni fa con 23 arresti.

 

Le intercettazioni all'ospedale di Negrar

Un ruolo emerso grazie alle intercettazioni ambientali in ospedale a Negrar e confermato da quel «lenzuolo appeso alla ringhiera con una frase per dargli il bentornato a casa e poi pubblicata sui social che simboleggia che aveva ripreso le redini dalla locale», disse in aula. Poi il tatuaggio di una rosa con le spine, i festeggiamenti, le caprate per dirimere le controversie e la conoscenza degli affari e dei rapporti tra le cosche non solo per quello che riguardava la «sua» locale ma anche quella di Isola di Capo Rizzuto.

 

Le pene

E a seguire chiesti 26 anni e 27mila euro per la moglie, Antonella Bova, 25 anni e 35 mila euro per Alfredo Giardino, 24 anni e 36mila euro per Luigi Russo, per Francesco Vallone (il direttore dell'Istituto Fermi) e Michele Pugliese la stessa pena, 22anni, e 15 anni per Silvano Sartori.

Poi le pene al di sotto dei dieci anni per Giovanni e Antonio Giardino (9 anni di reclusione e 24mila euro di multa), sette anni per Antonio Lo Prete, sei per Brunello Marchio e Arcangelo Iedà, cinque anni la condanna chiesta per Francesco e Luigi Caruso, quattro anni per Francesco Giardino e Agostino Durante e infine le pene più basse, i tre anni per Bledar Dervishi, Francesca Durante e Domenico Mercurio, il collaboratore di giustizia che insieme a Nicola Toffanin hanno sollevato in parte il velo sull'operato e sull'organizzazione della cosca.

Mercurio, come lui stesso ha dichiarato, aveva «il ruolo di organizzatore nel settore delle false fatturazioni», si occupava di recuperare le somme provenienti dalla Calabria per poi reimpiegarle nel Veronese con le fatture false. Ma davanti al collegio ha ripetuto: «Ho partecipato, ho contribuito ma non mi sento un mafioso», smarcandosi da qualsiasi affiliazione. Erano affari. Una requisitoria durata ore, martedì a concludere saranno le parti civili (Regione, Cgil Veneto e Amia)

Fabiana Marcolini

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