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L'aggressione di via Roma

Il giovane picchiato dalla baby gang: «Sono pronto a perdonare. Al lavoro? Devo andarci a piedi»

Soccorsi Il giovane gambiano a terra dopo essere stato picchiato dalla banda di ragazzini in via Roma
Soccorsi Il giovane gambiano a terra dopo essere stato picchiato dalla banda di ragazzini in via Roma
Soccorsi Il giovane gambiano a terra dopo essere stato picchiato dalla banda di ragazzini in via Roma
Soccorsi Il giovane gambiano a terra dopo essere stato picchiato dalla banda di ragazzini in via Roma

Ha il fiatone mentre parla. Perché sta camminando da quasi un’ora. Il giovane ventunenne gambiano rapinato e picchiato martedì sera in via Roma, ieri è tornato al lavoro: è aiuto cuoco e lavapiatti in un ristorante alle porte della città, a 4 chilometri di distanza da dove abita. «Adesso che sono senza il monopattino devo per forza spostarmi a piedi», racconta, «quindi stamattina sono partito presto per non arrivare in ritardo e adesso che sono le 15 sto tornando a casa. Ho una pausa di qualche ora ma poi riprendo per il turno della sera, e quindi più tardi devo rifare questa lunga passeggiata».

Sedici chilometri in tutto, quasi 4 ore di «viaggio» ogni giorno. «Ecco a cosa mi serviva il monopattino», sospira, «per quello l’ho difeso con i denti da quella banda e da quella ragazza che me le ha date di santa ragione per rubarmelo». E’ sconsolato: «L’avevo comperato con tutti i miei risparmi, sei mesi fa, l’ho pagato quasi 800 euro, ero così felice perché per me significava libertà di movimento, spostamenti veloci e adesso, dopo quello che è successo che ancora quasi non me ne rendo conto, sono di nuovo a piedi. A piedi e tanto, tanto triste: non doveva finire così...».

Al Pronto Soccorso, dopo il pestaggio, è stato curato per «trauma facciale e addominale». Ora sta bene, dice, «le ferite guariscono, è la paura che non se ne va più. Ho paura di stare da solo, anche stasera, con il buio, ho il terrore di fare tutta questa strada: se mi salta addosso qualcun altro? Se mi vogliono derubare del telefonino o del portafoglio? Io ormai dubito di tutti, qui». La sua situazione non è rosea. Dice che non può contare su nessuno, la famiglia è in Gambia, da dove è scappato sei anni fa in cerca di una vita migliore. «E invece di buono ho trovato poco», sorride amaro, «eccomi qua, con la bocca rotta, il naso fracassato e i lividi sulla pancia». E torna al suo «gioiello», a quel monopattino sognato a lungo e che alla fine, con tanti sforzi, era diventato suo: «Vivo in una comunità che ospita stranieri come me, i soldi che guadagno non posso spenderli per comperarne un altro o per una bicicletta o per l’abbonamento del bus. Anche perché vivrei nel terrore che me li prendessero di nuovo. Insomma, comincio ad essere sfiduciato, nella mia terra c’è la guerra e manca tutto ma queste cose là non succedono, non abbiamo nulla, soffriamo la fame, ma non ci accaniamo tra di noi, non ci feriamo. Sono scappato dalla povertà ma in Italia sono stato picchiato più di una volta e dopo l’altro giorno adesso mi è venuta dentro davvero tanta insicurezza, tanta paura». Confessa di non riuscire a dormire, dopo l’aggressione di via Roma. «Ho gli incubi, me la sono vista brutta, se non interveniva quel signore a fermare quella ragazza indemoniata, all’ospedale chissà come sarei arrivato. Io non so da dove le venisse tutta quella forza», riflette, «quella rabbia, io una violenza così non l’ho mai vista, penso che non stia bene, non la giustifico, anzi, ma se fossi un suo amico, un suo familiare, un parente, sarei molto preoccupato. Perché non è normale quello che ha fatto a me e a quell’adulto che si è messo in mezzo». E non è normale che nessuno del branco abbia avuto un momento di coscienza e di lucidità, per fermare il pestaggio, aggiunge. E che solo uno, tra gli «spettatori» (Fiorenzo, ndr), sia intervenuto a difenderlo.

Le ha prese per niente, ha paura, non ha più il suo monopattino ma, nonostante questo, non cerca vendetta. «Se mi chiedesse scusa, se fosse pentita», ecco la grandezza di questo giovane immigrato, «se volesse spiegarmi cosa le è scattato nella testa, credo che arriverei a perdonarla. Sono molto arrabbiato, le direi tutto quello che penso di chi si comporta come lei, la manderei a lavorare altroché ad andare in giro per la città a pestare la gente e a fare rapine, ma ne avrei alla fine tanta pena. Perché in fin dei conti a perdere è stata lei e chi era con lei, non io. Io ho perso il mio monopattino e dieci anni di vita», conclude, «ma sono a posto con la mia coscienza, non mi devo vergognare di niente. Il perdono, se c’è pentimento, non si nega a nessuno...». •. 

Camilla Ferro

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