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SPOON RIVER.

Vajont, i morti veronesi dimenticati

Erano originari della città e di altre 6 località. La testimonianza di Egidio Nobis: suo padre Alberto morì travolto a 26 anni
Longarone 1963: elicotteri americani Setaf portano i soccorsi dopo la bomba d'acqua uscita dalla diga
Longarone 1963: elicotteri americani Setaf portano i soccorsi dopo la bomba d'acqua uscita dalla diga
Longarone 1963: elicotteri americani Setaf portano i soccorsi dopo la bomba d'acqua uscita dalla diga
Longarone 1963: elicotteri americani Setaf portano i soccorsi dopo la bomba d'acqua uscita dalla diga

Vi chiederete: perché ancora Vajont? Ci siamo abituati a celebrare la memoria a partite stagne, sicché ogni grande evento o lutto della storia ha una sua data per essere ricordato, e per tutto il resto dell'anno si può dimenticare.
LA DIGA. Non è tanto per sovvertire questa consuetudine che torniamo a parlare della diga tra le più alte del mondo e della strage che provocò il 9 ottobre 1963 in provincia di Belluno. Sulla scia del cinquantenario, ci sembra giusto completare il ricordo con l'elenco dei veronesi che, per lavoro o per matrimonio, si erano trasferiti nei paesi vicini al grande bacino idroelettrico, e là perirono, spazzati via dall'onda.
LA LISTA. Lo facciamo appena ricevuta dall'Ufficio cultura del Comune di Longarone la lista certificata della nostra piccola Spoon River, che conta 14 nativi del Veronese morti nel Vajont (vedi l'altro articolo). Giovani e anziani, operai, commercianti, consacrati, impiegati, originari di 7 località scaligere.
Di uno di questi, un dipendente della filiale longaronese della Cassa di Risparmio, vogliamo raccontarvi la storia.
ALBERTO NOBIS aveva 26 anni, una giovane moglie, Rosanna, e un bimbo di quattro mesi, Egidio. La coppia, dopo il matrimonio, si era stabilita nel Bellunese a causa del lavoro di lui.
«A Longarone i miei genitori si trovavano bene. Mia madre aveva fatto amicizia con i paesani e anche con i colleghi di mio padre, tra cui un certo Vinicio, il direttore della filiale, che morì con l'intera sua famiglia», racconta oggi Egidio Nobis (detto Gianfranco), il figlio miracolato. «Le avvisaglie del disastro c'erano da tempo. Tremolii, piccole scosse, boati. Tutti ne parlavano e covavano timori, ma nessuno pensava che fosse il caso di scappare».
Pochissimi si salvarono grazie a circostanze puramente casuali. Fra questi, Egidio e sua madre. Fatalità: l'8 ottobre Rosanna, che allora aveva 23 anni, prese con sé il piccolo e rientrò a Verona, con l'intenzione di starci qualche giorno. «I miei nonni materni, Giuseppe e Amelia, dovevano recarsi a un matrimonio piuttosto distante e, in loro assenza, la mamma aveva il compito di badare alla casa e ai tre fratelli».
«Viceversa, poiché mio papà era rimasto da solo a Longarone, mia nonna paterna Lena colse l'occasione di andarlo a trovare e dargli una mano. Erano molto legati dalle avversità della vita: la nonna, quando suo marito era morto sotto i bombardamenti dell'ultima guerra, aveva lavorato sodo come camiciaia per mantenere la famiglia, e mio padre era dovuto andare in collegio».
MA ECCO CHE, in un istante, il Vajont separa per sempre i destini della famiglia: Rosanna e il piccolo Egidio salvi a Verona; Alberto e nonna Lena sepolti dall'acqua e dal fango a Longarone.
«Alla notizia, mia madre rimase scioccata. La fase successiva al disastro, con la richiesta di informazioni sui dispersi, fu davvero penosa. Lei vagava come un fantasma sul luogo dove c'era stata la nostra casa. Ogni piccola speranza finì quando si riconobbe non il corpo ma la fede di mio padre, con la data di matrimonio. Mia nonna invece non fu mai più ritrovata».
In seguito, Rosanna e il piccolo tornarono definitivamente a Verona, accolti dai genitori di lei. «Devo dire che non ci mancarono gli aiuti, anche economici. Gli stessi dipendenti della Cassa di Risparmio fecero una colletta per noi», racconta Egidio. «Nemmeno l'affetto familiare mi mancò. Certo, quando vedevo i miei amichetti insieme ai loro padri, mi coglieva un po' di tristezza. Ma mai rabbia. Nella mia ingenuità di bambino, non capivo bene cos'era stato il Vajont e che c'erano responsabilità umane».
E OGGI? «Oggi invece so che la catastrofe fu provocata dall'avidità. Però non provo odio nei confronti di chi ha sbagliato e che ha già pagato, o pagherà nell'aldilà. Io? Mi sento un miracolato. Tante volte mi sono arrovellato sul senso della mia salvezza. Da credente, mi rispondo che forse c'è un disegno dietro tutto questo, anche se ancora non lo conosco. Forse il senso sta semplicemente nell'aver formato una famiglia e nel raccontare questa storia ai miei figli. Bisogna continuare a ricordare con parole e con immagini che facciano da monito soprattutto per gli amministratori pubblici e per i giovani, perché l'Italia ha la memoria corta».

Lorenza Costantino

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