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Giorno della memoria

Giuseppe che si fece rompere un braccio per sopravvivere nel lager

Bellorio di Lugo fu deportato nel 1943. Il figlio conserva i documenti e i diari che raccontano le condizioni terribili
Daniele Bellorio con i documenti del padre Giuseppe, deportato in Germania
Daniele Bellorio con i documenti del padre Giuseppe, deportato in Germania
Daniele Bellorio con i documenti del padre Giuseppe, deportato in Germania
Daniele Bellorio con i documenti del padre Giuseppe, deportato in Germania

Si fece rompere un braccio da un compagno del campo di prigionia, così almeno nell'infermeria non avrebbe subito maltrattamenti, prima di riprendere i lavori forzati nelle fabbriche di prodotti metallici e chimici del Terzo Reich, dove Giuseppe Bellorio, originario di Lugo, fu deportato il 9 settembre del 1943. «Ogni errore, anche insignificante, era punito duramente», spiega il figlio Daniele all'assessore alla Cultura Rosamaria Conti che ieri, assieme alla biblioteca comunale, ha presentato in sala Bodenheim un videoforum sulla Giornata della Memoria.

L'8 settembre del 1943, l’Italia aveva firmato l’armistizio: cioè, la resa senza condizioni agli Alleati e la conseguente disdetta del patto con Adolf Hitler. Le truppe che si rifiutarono di combattere ancora con i nazifascisti della Repubblica di Salò capeggiata da Benito Mussolini furono condotte in Germania. Bellorio fu uno di essi.

Deportato su un vagone del bestiame

«Fu caricato in un vagone del bestiame. Restò in piedi, ammassato agli altri, fino a Fallingbostel, tra Amburgo e Hannover», racconta il figlio. Quando fu catturato, il padre si trovava nella caserma di Bolzano, dove svolgeva il servizio di leva. Prima di giungere in Alto Adige, era uno dei falegnami che intagliavano le ruote dei carri usati dai contadini di Grezzana. Appena l’Italia sottoscrisse la tregua, la Wehrmacht cominciò i rastrellamenti. Mentre gli aerei degli Alleati bombardavano il fortilizio di Bolzano; i tedeschi, a terra, mitragliavano gli Italiani che fuggivano. «Papà, per ripararsi dai proiettili, si rifugiò dentro una buca scavata dall’esplosione di un ordigno», prosegue Bellorio. Dopo l’incursione degli Alleati, i tedeschi stanarono i sopravvissuti. Non ci fu modo di sottrarsi alla brutalità. Neppure per il soldato della Valpantena.

«Nel novembre del 1943, il fratello maggiore, Mario, minatore in Germania, si rivolse all’Ambasciata Italiana per avere notizie di mio padre», ricorda il figlio. «Nel febbraio del 1944, gli uffici diplomatici gli risposero che Giuseppe era stato internato a Fallingbostel, ma che il fratello maggiore, anziché alla nostra Ambasciata, avrebbe dovuto richiedere l’eventuale autorizzazione per accedere al campo di prigionia direttamente all’Okw, che era il Comando supremo delle forze armate tedesche. I due fratelli non si incontrarono».

Allo stremo 

Le condizioni dei confinati negli stabilimenti al servizio del Terzo Reich erano davvero insostenibili. Ad ogni cambio d’attività, i sorveglianti facevano l’appello. «Turni alternati di 12 ore, denutriti e senza alcuna protezione per salvaguardare la salute», assicura Bellorio, mostrando il documento, in cui il padre descrisse ciò, incluso nell’incartamento sul risarcimento dei danni per le vittime e perseguitati dal Terzo Reich. Sarà il ministero dell’Economia a stabilire tempi e modi per la liquidazione delle somme agli aventi diritto.

Il 25 aprile del 1945, gli Alleati liberarono l’Alto Adige dai tedeschi. «Papà tornò a casa, ma fu ricoverato, perché le sostanze che aveva inalato e maneggiato in Germania gli avevano disfatto il fisico», aggiunge il figlio.

Il diario

«Dal 1952 al 1956 entrò ed uscì dal sanatorio di Jesolo». Fu proprio Mussolini, nel 1928, ad inaugurare la colonia per l’infanzia sulla riviera adriatica destinata alla cura e al rafforzamento delle vie respiratorie. Oggi è un ospedale civile. Il padre avrebbe tenuto anche un diario di quei soggiorni climatici, tutt’altro che vacanzieri. «Un manoscritto, sembrerebbe dagli appunti di papà. Mai, però, trovato», conclude Bellorio. Nel 1957, l’ex soldato sposò Maria Erbisti, che morì nel 2009. L’uomo, nel 2010, fu sepolto nel cimitero di Lugo, dov’è anche la moglie.

Stefano Caniato

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