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Il personaggio

Consulente d'azienda con la passione per la vela: «Il mio giro del mondo una sfida negli Oceani»

Dalle Canarie ai Caraibi, da Panama alla Polinesia, in luglio prossima tappa. «Sei un microbo nell’immenso: la natura ti rimette al tuo posto»
Fernè, consulente d'azienda con la passione per la vela
Fernè, consulente d'azienda con la passione per la vela
Fernè, consulente d'azienda con la passione per la vela
Fernè, consulente d'azienda con la passione per la vela

Lui qui, a Verona, a far passare una primavera capricciosa. Lei là, in Polinesia, a Raiatea nelle Isole della Società, 15 miglia da Bora Bora, mare turchese, coralli, una natura dipinta di smeraldo. Si rivedranno presto, in luglio, e sarà come non essersi mai lasciati. Perché quella tra Filippo Fernè e la sua Falabrach è una storia in cui la fedeltà vince sulla lontananza, la nostalgia non è che l’attesa di un nuovo incontro, ogni distacco è reso meno amaro dall’impegno a rispettare la data del prossimo appuntamento.

Filippo Fernè ha 63 anni e sta facendo il giro del mondo. A tappe, ritagliando tempo – sempre più tempo – al suo lavoro di consulente. Base a Verona, abita nel quartiere di Borgo Trento, soggiorni frequenti nella campagna trevigiana dove ha proprietà la moglie Giuliana, tre figlie poco più che ventenni – Lavinia, Ginevra, Aurora - all’estero per lavoro o per studio, è uno che ha dato sostanza ai sogni impossibili di tanti: mollare (almeno) un po’ il lavoro per coltivare una passione.

Ha fatto per 30 anni il gestore d’aziende, è stato amministratore e presidente delle Terme di Sirmione, ha fiutato in anticipo i temi della responsabilità ambientale e dell’approccio consapevole, li ha applicati alle imprese e promossi finanziando startup. Di origine romagnola, da giovane viaggiava in moto verso l’Oriente e amava la montagna. È stato l’incontro con il suocero a mostrargli un’altra strada. E a metterlo sulla rotta.

La passione

La passione di Filippo Fernè - «senile» lui dice – è il mare e chiama in causa lei: Falabrach, la sua barca a vela. Un 15 metri da navigatori oceanici preso qualche anno fa per rimpiazzare il predecessore, il glorioso Meninpippo che l’aveva accompagnato per anni su e giù per il Mediterraneo, anche in solitaria, dalla Croazia alla Grecia alla Turchia, a farsi bruciare la pelle dal sole e dal sale e a scoprire quella vita particolare del velista assoluto, le giornate scandite dalla disciplina e dalle pene della quotidianità prima di abbandonarsi all’estasi e a volte al confronto con l’infinito.

Le provviste e gli imprevisti, gli spazi stretti, le emozioni e i disagi, il suono del mare. O il silenzio. Falabrach aveva già esperienza di oceani, un giorno Filippo ha pensato che con lei poteva condividere il progetto a lungo immaginato: via dal Mediterraneo, oltre Gibilterra, l’Oceano, gli Oceani. Il giro del mondo. Un’impresa per pochi, in questo momento solo duemila barche. Fernè ne parla nel suo ufficio di piazza Corrubbio, tavoloni, computer e ai muri una serie favolosa di mappe antiche.

«Per un velista del Mediterraneo», spiega, «uscire in Oceano significa cambiare totalmente prospettiva. Qui vedi quasi sempre terra, là solo acqua per settimane. Devi abituarti, ma ancor prima convincerti di essere in grado di affrontare quella situazione e tenere sotto controllo reazioni inaspettate. Se vuoi imparare veramente a gestire una barca, devi andare in altura». È partito nel novembre 2016 dalle Canarie e si è affacciato sull’Oceano Atlantico. Non da solo.

«A bordo si alternano una decina di persone, amici velisti e un bel po’ di giovani, oltre naturalmente a moglie e figlie e per il tempo loro consentito da lavoro o studio. Aurora però ha navigato sia l’Atlantico (della traversata ha fatto il progetto al centro del suo anno sabbatico prima dell’università) che il Pacifico ed è la persona che ha navigato di più con me».

Tra coraggio e paura

Davanti, il mare infinito confonde le unità di misura della vita. «Ti senti grande per quello che stai facendo e infinitamente piccolo in quello che ti circonda, pieno di coraggio e di paura. Sei protetto, come nel grembo del mondo, ed esposto ai pericoli che la natura può generare in ogni momento. Il tempo si dilata e ti consente di misurare la tua dimensione di persona. La distanza non è più (solo) questione di miglia, diventa l’orizzonte di pensieri che non hai mai avuto prima. Navigare in oceano è come una meditazione al cubo. Non ci sono sovrastrutture, mangi dormi porti la barca: il resto è superfluo. È depurazione assoluta dal meno utile, tutto è ridotto all’essenziale, la tua vita è legata al fatto che la barca funzioni e ti senti un microbo nell’immensità. Là in mezzo la natura ti rimette al tuo posto. Vedi un uccello e sai che la terraferma più vicina è a duemila miglia: da dove viene? Come ha fatto?».

Il testamento

Fernè ha fatto testamento. «La paura di fondo c’è sempre. Sei cosciente di essere in balìa, anche se oggi la tecnologia mette a disposizione gps, chartplotter e strumenti che consentono di scaricare mappe meteo delle aree di navigazione. Ma la tecnologia può rompersi e allora non serve altro che calma: fino a che la barca galleggia, riesci a farla andare. Se resti isolato per una settimana, come è capitato, non ti devi far prendere dal panico. Se uno dell’equipaggio si ferisce, ti devi arrangiare con l’infermeria di bordo. In mezzo all’oceano abbiamo dato 11 punti di sutura allo stinco di uno dei ragazzi facendoci dare le istruzioni al telefono da un amico medico».

Stare in oceano 20 giorni di fila 24 ore su 24 è più o meno lo stesso tempo di navigazione che si impiega a fare le vacanze in barca per 6-7 anni nel Mediterraneo. Falabrach è partita dalle Canarie partecipando con altre 200 barche all’Arc (Atlantic Rally for Cruisers), il più grande evento di vela oceanico del mondo. In 21 giorni e dopo 2.700 miglia è arrivata all’isola caraibica di Saint Lucia. «Per tutto il il 2017 siamo rimasti ai Caraibi e in Venezuela», racconta Fernè.

La formula invariata

La formula è sempre la stessa: la barca resta in qualche porto, lui con amici e famiglia quando è possibile la raggiunge. Fanno vita di mare fra isole, porti e lagune, fino alla traversata successiva. Prima dell'oceano si fa cambusa. «Di solito porto uova in quantità industriale, 120-140, poi legumi, pasta, riso, frutta e ortaggi, olio vino, mentre il pane lo facciamo a bordo. E poi ogni tanto si pesca, in Pacifico con il pesce ci puoi campare...».

All’inizio del 2018 Falabrach ha attraversato il canale di Panama, da un Oceano all’altro: il Pacifico, quasi 8mila miglia, il doppio dell’Atlantico, la prima settimana per arrivare alle Galapagos. «Il Pacifico è un altro mondo. Dalle Galapagos alle Marchesi sono stati 18 giorni di navigazione e 3mila miglia. Quando appare la prima isola polinesiana, Fatu Hiva, è natura allo stato puro, primordiale. I suoi 600 abitanti scollegati da tutto, autoctoni incontaminati, hanno la stessa generosità spontanea dell’ambiente in cui sono cresciuti: ci hanno cotto e regalato il pane, riempito di cocco e papaye».

Dalle Marchesi a Tuamotu alle Isole della Società. Falabrach è laggiù dall’aprile del 2018. Nel prossimo luglio Fernè vuol spingerla verso le Cook, poi Tonga, e arrivare alle Figi. E lasciarla là. «Il viaggio proseguirà verso Papua Nuova Guinea per andare alle Molucche». Quindi l’Oceano successivo, l’Indiano, fino al canale di Suez. Ma chissà quando. «Se ho deciso la data di ritorno? Assolutamente no». Ai sogni, in effetti, non si devono mettere confini. 

Bonifacio Pignatti

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