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TRA CANZONI E INTEGRAZIONE

Tommy Kuti: «Violenza che fa paura, ma è sbagliato puntare il dito sul colore della pelle»

L’artista bresciano ha origini nigeriane.
Tommy Kuti, rapper
Tommy Kuti, rapper
Tommy Kuti, rapper
Tommy Kuti, rapper

Il suo motto, scandito e ribadito anche in una canzone, è estremamente lucido, diretto, al punto senza compromessi: «Né bianco né nero: #Afroitaliano». Nel buio pesto del lockdown lo aveva ulteriormente amplificato nel manifesto d’intenti in musica con «We have a dream», un calcio al razzismo con l'hip hop, tra echi di Martin Luther King nel flow che invocava uguaglianza e un futuro migliore.

Impossibile dunque per Tommy Kuti - rapper bresciano di origini nigeriane (1989), vissuto prima in Valle Camonica poi sul Garda e attualmente accasato a Milano - rimanere impossibile di fronte ai fatti di Peschiera. «La cosa mi ha colpito profondamente. Ma mi ha altrettanto colpito, anzi direi mi ha proprio spaventato, come subito e a più livelli tutti abbiano voluto puntare il dito, dare un’etichetta, dare un colore a quello che è successo, a una situazione di grande disagio…fatti gravissimi, è evidente, ma che nulla c’entrano con le strumentalizzazioni razziali a cui stiamo assistendo. Ancor più – sottolinea Tommy Kuti – perché le persone coinvolte erano principalmente italiani di seconda generazione di origine nordafricana. E allora di cosa stiamo parlando?».

Il problema, semmai, secondo il rapper bresciano è un altro: «Miopia e “deresponsabilizzazione”, della politica e delle istituzioni. Che da una parte hanno bisogno di un nemico, di un colpevole, di un capro espiatorio, senza rendersi conto che il volto degli italiani sta cambiando. E i ragazzi che si sono resi protagonisti degli incresciosi fatti di Peschiera non erano immigrati, nordafricani o clandestini, ma italiani come tutti noi».

Quanto alle affermazioni finite nell’occhio del ciclone (una su tutte, «Siamo venuti a riconquistare Peschiera. Questo è territorio nostro, l’Africa deve venire qui») «è incredibile e molto triste come si possa prendere la frase di un ragazzino e farne una bandiera. Il vero problema che a mio avviso emerge invece prepotente da questa storia riguarda la violenza, sempre più fuori controllo, lo stato di disagio dilagante, in particolare fra giovani e giovanissimi: di questo ci dobbiamo veramente preoccupare, anche perché sembra che le contromisure arranchino. L’influenza dei social? Penso che raccontino storie e situazioni che sono sempre esistite ma che solo ora le generazioni più anziane stanno scoprendo. Penso anche che siano un grande strumento di espressione, per una generazione di artisti che è incazzata e fa proseliti, semplicemente descrivendo e rappresentando quello che vede, non certo istigando».

Non solo musicista ma anche volto televisivo grazie a Pechino Express, autore di un libro autobiografico, Tommy Kuti negli ultimi anni è stato in prima linea anche ad «Afrobrix», festival cittadino il cui obiettivo è valorizzare attraverso cinema, musica e la cultura tutte le realtà afrodiscendenti e afroeuropee. 
Una sincronizzazione di spirito, ritmo, cuore: «Sogno un'Italia in cui il colore della mia pelle ha meno importanza del mio talento, delle mie capacità… Sono qui per raccontare la storia della mia gente, che nonostante gli sguardi diffidenti ha deciso di costruire un futuro in questo Paese. E so benissimo che ne passeranno di anni, prima che il mondo ideale che m'immagino si manifesti. Lo so bene che da solo non posso cambiare il mondo, ma spero di ispirare quella mente che avrà il coraggio e la forza di farlo».

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