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Olga, spiata dal regime e poi «prof» a Verona

Un documento d’identità di Olga Manente da giovanissima
Un documento d’identità di Olga Manente da giovanissima
Un documento d’identità di Olga Manente da giovanissima
Un documento d’identità di Olga Manente da giovanissima

Occhi intensi, sguardo dolce e deciso. Italiana e africana. Figlia di Virginio, ufficiale dei Carabinieri originario di Spinea e di una donna eritrea di Saganèiti, dove il militare prestava servizio. Olga Manente, nata nel 1917, è stata la prima donna dalla pelle scura iscritta all’università di Ca’ Foscari a Venezia. I burocrati fascisti, in tempi di leggi razziali, l’avevano inserita nella lista degli studenti «probabilmente ebrei». Era una questione di «colore»: lei, a guerra finita, sarebbe divenuta docente di lingue nelle scuole veronesi e moglie di un professionista della città. La storia di Olga, arrivata bambina in Italia con il padre, passa per Spinea, nel Veneziano e approda in riva all’Adige dove Virginio sposa Elvira Valbusa (1895-1958): insieme la fanno crescere. La giovane si iscrive all’Istituto superiore di economia e commercio di Venezia, oggi università di Ca’ Foscari, e un anno dopo l’esordio come matricola, nel 1938, deve scrivere al rettore di «professare la relegione cattolica». È l’anno delle «leggi razziali» emanate dal fascismo: lei è già «attenzionata» e soprattutto ha la pelle più scura e i capelli, divisi da una scriminatura, non così italianamente lisci quanto vorrebbe il regime. Si laurea il 13 novembre del 1945, con una tesi orale sul «Malato immaginario» di Molière. Pochi anni più tardi, professoressa di lingue a Verona, conosce Ivanhoe Mazza e diviene sua moglie. Suo figlio, Giorgio, nasce nel 1945, quando lei ha ventinove anni. Rimane misteriosa gran parte della sua vita. La sua foto è comunque tra quelle che compongono la mostra che l’università Ca’ Foscari ha dedicato al periodo oscuro delle leggi razziali negli anni del regime fascista. Le certezze sono affidate ai soli dati anagrafici: Olga muore a Verona il 12 ottobre del 2009, otto anni dopo la scomparsa del figlio Giorgio. Era, allora, già rimasta sola: il marito Ivanhoe era morto il 29 ottobre del 1991. I genitori, Elvira e Virginio, li aveva perduti nel 1958 e nel 1964. Resta di lei solo il mistero, come per tante altre vite passate al vaglio tragico di quegli anni. In una lettera alla cugina Alba, una delle pochissime tracce, scrive: «Il 7 novembre (papà, ndr) è morto e non sono capace di convincermene, non riesco a farmi forza ma tu sai quanto gli volevo bene». Era sicuramente una donna che amava l’indipendenza e voleva una vita per sè. Non meraviglia che il fascismo l’avesse «attenzionata». • P.M. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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