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l'emergenza

Il procuratore reggente: «Giovani senza gli anticorpi morali e la consapevolezza dei propri gesti»

Il fenomeno è in aumento: gli episodi negli anni scorsi erano meno frequenti ed eclatanti. Bruni: «Si tratta per lo più di gruppi di italiani o di immigrati di seconda generazione»
Il procuratore Bruno Bruni
Il procuratore Bruno Bruni
Il procuratore Bruno Bruni
Il procuratore Bruno Bruni

«Questi ragazzini non hanno gli “anticorpi morali”, che consentono loro di riflettere sul disvalore delle proprie azioni». A parlare è Bruno Francesco Bruni, procuratore capo reggente di Verona, che fornisce un quadro del fenomeno delle baby gang dall’osservatorio speciale della Procura scaligera, sulla base delle recenti inchieste condotte a Verona.

Inchieste che hanno puntato i riflettori su alcune delle bande giovanili scaligere più attive, come la “Qbr”, acronimo di Quartiere Borgo Roma, e la «Usk».

Procuratore Bruni, negli ultimi giorni si sono verificati diversi episodi di violenza ad opera delle cosiddette baby gang. È un fenomeno in crescita?

Sì. Negli ultimi anni abbiamo riscontrato un aumento del fenomeno rispetto al passato, quando gli episodi erano meno frequenti e vistosi.

Qual è l’identikit del ragazzino che fa parte di queste baby gang?

Il fenomeno generalmente riguarda giovani italiani o immigrati di seconda generazione. La fascia d’età va dai 14 ai 19-20 anni. Noi ci occupiamo dei maggiorenni, mentre la Procura dei minori di Venezia segue i casi dei ragazzi che ancora non hanno compiuto i 18 anni.

Quali sono i reati che le baby gang tendono a commettere più frequentemente?

Per la nostra esperienza, possiamo dire che si tratta in genere di furti e rapine: alla sottrazione di un oggetto, infatti, si accompagnano anche intimidazioni o violenze. Talvolta, inoltre, abbiamo riscontrato episodi di bullismo, casi di violenza gratuita.

Chi sono, invece, le vittime?

I giovani che fanno parte di queste baby gang scelgono obiettivi facili, ragazzini più piccoli di loro, ragazzini isolati. Vogliono “prede facili”, che finiscono per cedere alla sopraffazione, perché non hanno le armi per potersi difendere.

Che cosa spinge le gang giovanili a comportarsi così?

Credo che alla base ci sia un desiderio di autoaffermazione da parte di questi ragazzi. Il loro è un tentativo di darsi un’identità e di affermarla, anche se in modo distorto, forse per l’assenza della famiglia, della scuola o di altri apporti educativi.

Che ruolo gioca, in questo fenomeno, il fatto di essere in gruppo?

Il gruppo alimenta queste dinamiche, perché accresce in modo esponenziale l’impulso ad agire. Alcuni gesti che i ragazzini da soli non farebbero, in gruppo vengono più facili, perché ci si incita reciprocamente. E questo vale a maggior ragione oggi, con la diffusione dei social network.

I social giocano un ruolo sempre più di primo piano…

 proprio così. I social hanno un ruolo importante sia dal punto di vista psicologico, che da quello organizzativo. Psicologico, perché costituiscono una forma di autoesaltazione: i ragazzini si vantano di ciò che hanno fatto attraverso questi canali e più gradimenti ottengono, più si sentono gratificati. A livello organizzativo, invece, i social aiutano a pianificare le azioni, stabilendo obiettivi, tempi e il luogo dove trovarsi.

Quali sono le cause all’origine del comportamento di questi ragazzi?

Credo che la crisi abbia determinato una minor presenza delle famiglie: in passato l’educazione dei figli occupava grande spazio, mentre oggi, in un mondo dai ritmi sempre più frenetici, ci sono sempre meno energie, sempre meno tempo da dedicare alle nuove generazioni.

Quale peso hanno avuto l’emergenza sanitaria e i lockdown in tutto questo?

La pandemia può aver favorito questa necessità di autoaffermazione. Impossibilitati a esprimersi per lungo tempo e spinti dalla necessità di agire, hanno trovato valvole di sfogo di natura violenta.

Come intervenire per frenare questo fenomeno?

Per questi ragazzi è indicato un percorso rieducativo, che li aiuti a riflettere sul disvalore di ciò che hanno fatto, perché loro probabilmente non ne sono consapevoli: non hanno gli “anticorpi morali” per fare una riflessione con strumenti critici adeguati.

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Manuela Trevisani

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