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INDIMENTICABILE GUIDO

Quando c'era Zamperioli «Lui vive sempre con noi»

«Sul pullman di ritorno ci faceva una testa grande così per spiegarci per filo e per segno che cosa avevamo sbagliato»
Guido Zamperioli, prima corridore poi direttore sportivo
Guido Zamperioli, prima corridore poi direttore sportivo
Guido Zamperioli, prima corridore poi direttore sportivo
Guido Zamperioli, prima corridore poi direttore sportivo

Sono trascorsi trent'anni dalla morte (29 novembre 1984), ma Guido Zamperioli "vive" ancora. Avrebbe 95 anni (classe 1919) e sarebbe ancora moderno. I suoi insegnamenti andrebbero bene anche nel ciclismo di oggi e di domani perché Guido era all'avanguardia in tutto. La traccia lasciata da Zamperioli rimane indelebile. Guido non amava i riflettori, ma i suoi ex, da sempre, lo mettono in vetrina. «Ci ha insegnato a vivere» dice Severino Andreoli, sintetizzando in cinque parole la riconoscenza di chi l'ha conosciuto. Si è detto e scritto tanto di q*uesto maestro del ciclismo veronese e nazionale. Il figlio Jano, 75 anni il prossimo luglio, circa 30 mila chilometri in bici all'anno, «anche se con me, papà parlava pochissimo», dà flash che dicono della grandezza e dell'umanità dell'uomo e del tecnico (vincitore anche della San Pellegrino, il Giro d'Italia di allora per dilettanti, con Mino Bariviera). Guido parlava pochissimo con Jano «perché guai si pensasse a favoritismi», così «parlava ad altri perché io capissi». Tornato dilettante nel 1946, dopo che la guerra aveva frenato la sua carriera tra i prof (una vittoria nella Coppa Città di Verona nel 1941, era stato poi costretto a rinunciare al Giro d'Italia con la Legnano perché gli avevano rubato la bici), aveva «inventato il gioco di squadra», suo punto di forza e caratteristica quando, prima con l'Ausonia, poi con Bencini e Ponton (e alla Quarella come consulente), era salito sull'ammiraglia.
Zamperioli era quello che «dopo una fuga a cinque, con dentro Andreoli, Guerra, Soave e Vicentini, tutti della Bencini, assieme a Gianni Motta, con Motta che se ne va in discesa e il solo Vicentini l'aggancia, e se ne sta a ruota, per poi battere in volata Gianni, che, vistosi sorpassato tenta di sferrare un pugno al Vice, si oppone alla squalifica di Motta perché Vicentini, almeno un cambio, avrebbe dovuto darlo». Era quello che «sul pullman di ritorno, ti faceva una testa così spiegandoti per filo e per segno dove e cosa si era sbagliato, dove si doveva fare questo o quell'altro e così via e dovevi sperare che il viaggio fosse breve, perché altrimenti uscivi fuori... matto». D'altra parte, «alle partenze, guardava i tipi di gomme degli altri corridori o quanto uno avesse di rifornimento e se ne aveva poco ti spiegava che quello avrebbe attaccato, ma non sarebbe arrivato alla fine, ti diceva chi dovevi curare, come fare a contrastare uno e tu sapevi tutto di tutti e come regolarti». Guido Zamperioli era «un inarrivabile maestro di tattica» e metodico in tutto. «In pullman, avevamo una vasca piena di acqua col ghiaccio, così le nostre borracce erano sempre fresche. E le bici? Nessuno le aveva come noi, perfette. Era all'avanguardia. Un esempio: lui e Menon, in bici, vanno a Roma per il campionato italiano, dormono lungo la strada. In corsa, dopo 48 km, a papà si rompe il groppo della sella, torna a casa, si mette a studiare come rimediare e 50 anni prima di Campagnolo realizza un groppo nuovo. Altro esempio: le strade erano sterrate e, se pioveva, erano dolori pedalarvi sopra e la catena si inceppava. Allora, fa un buco nel piantone, vi inserisce una sorta di oliera che, al momento opportuno, fa cadere olio nella catena. Si inventa anche le pedivelle di ferro fatte a gancio per una pedalata più rotonda». Nella cantina di Jano, ci sono le prove.
Guido Zamperioli, in tempo di guerra, era un portaordini nel Genio Pontieri. Ma arriva a lui l'ordine di partire per il fronte russo. Non vuole andare, sa «che da lì non si torna», come, in effetti, sarà. «Per restare a casa è andato dal dottor Fumagalli che gli ha tolto i denti della masticazione. A casa, raccontavano che aveva fatto Verona-Peschiera, andata e ritorno a piedi, ingoiando balistite, così alla visita ha detto che aveva mal di stomaco, hanno visto che la causa stava nei denti e l'hanno lasciato a casa. Così si è salvato». Dalla Russia, invece, è tornato «zio Matteo e ricordo che, all'arrivo, era con uno senza i piedi».
Guido ha conosciuto la sofferenza, la più dolorosa: la morte del figlio Franco. Era il 1946 «eravamo andati in Borgo Milano, al bar Toscano, per vedere zio Matteo, poi Franco, aveva 3 anni, mi chiede se avevo sete. E corre verso un tavolino, di marmo e gli cade addosso: è morto». Papà Guido ci «ha messo tre anni a riprendersi».

Renzo Puliero

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