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L'ex capitano del Chievo

Michael Fabbro, la nuova vita da artista. «Ma non ho mai smesso di allenarmi, il calcio è il mio mestiere»

Michael Fabbro calciatore e pittore
Michael Fabbro calciatore e pittore
Michael Fabbro calciatore e pittore
Michael Fabbro calciatore e pittore

Si è preso la storia quando i titoli di coda stavano già scorrendo. L’ultimo a segnare con il Chievo. L’ultimo a portare la fascia da capitano, lo scorso 18 luglio a Pieve di Cadore. Ultima passerella del Chievo di Luca Campedelli prima della grande eclissi. Pareggio con la Virtus di Gigi Fresco, il calcio d’estate dentro l’inverno del Ceo. E tra ricordi e sospiri, resta quella maglia numero nove senza nome «che purtroppo non ho con me». Michael Fabbro oggi è svincolato. Non ha mai smesso di allenarsi e «spero di rientrare presto».

Ma in una delle ultime interviste rilasciate al nostro giornale, ci aveva consegnato le chiavi di accesso al suo mondo oltre la collina. Una passione sfrenata per il pianoforte, scoperta per caso quando era a Pisa. L’amore per i «viaggi mentali notturni» propiziati dall’ascolto dei brani creati da Ludovico Einaudi. Il sogno «di suonare un giorno in un’Arena buia. Diecimila persone invisibili in platea ad ascoltarmi». Un messaggio dedicato al Chievo «dalla grande anima rock» consegnato alla storia.

Oggi Fabbro si è reinventato anche artista. Dentro al suo mondo pieno di colori e universi paralleli è spuntata anche la passione per l’arte. «Mio padre Marino crea da sempre. Avevo l’esempio in casa, lui è un artista astratto. E sono cresciuto anche respirando Giorgio Celiberti, grande pittore e scultore friulano, amico di famiglia». Si è fatto rapire. «Mi sono dato all’arte moderna. Avete presente Bansky? Beh, lui è di un altro pianeta. Io uso acrilici, bombolette, me stesso. Abbiamo aperto una pagina Instagram con papà: Mf Square Art. Carichiamo le opere. Devo dire che mi sono sentito apprezzato. Piace quello che faccio. Ma non so ancora quello che farò domani. Il distacco dal calcio mi ha permesso di riavvicinarmi alla famiglia e di far sgorgare una passione repressa. La tela diventa specchio della mia anima. E mi lascio andare. Oggi è così. La mano è comandata dal cuore, non dalla testa».

 

Fabbro ha scelto l’arte. «Per riempire un vuoto incolmabile lasciato dal Chievo. Lì era il mio mondo. Lì è stato come sognare». Lì, magari, ci tornerebbe se la Clivense di Sergio Pellissier lo chiamasse per un anno di D? «Ci penserei. Verona è la città di mio nonno Ivanoe Perina. Lui era di Villafranca. E c’è un po’ di veronese dentro di me. Non credo ancora sia finita così. Sogno di tornare. Le favole non possono finire male». Invece, questa, è finita nel peggior modo immaginabile. E Micheal si è trovato «alle cinque di mattina a struggermi per quello che era successo. Non riuscivo a prendere sonno, qualche cosa dovevo fare». Toccato il fondo. «Mi sono messo a creare. Non dovevo pensare. Anzi, dovevo pensare ad altro». E Fabbro ha scoperto uno dei tanti lati creativi del suo mondo interiore. «Facevo notte, mi mettevo le cuffie, lasciavo partire la musica giusta. E davanti a me tenevo una tela bianca. Da riempire quando sarebbe arrivata l’ispirazione. Tutto si crea così. Pure gli sbagli sono una via. Ti portano dove non volevi andare. Ma forse è proprio da lì che volevi partire».

Errare è umano. A volte provvidenziale. Forse divino. Qualcuno la chiama “serendipity”. Oggi Fabbro dipinge le emozioni più profonde. «Ma ancora non riesco ad affrontare il Chievo. Se arriva il pensiero, devo distoglierlo. Non è ancora il momento. Attraverso le mie creazioni cerco di liberarmi del passato».

Tornerà a giocare Fabbro? «Spero di sì. Perché comunque considero il calcio ancora il mio primo impiego. Le proposte non sono mancate. A volte ho rifiutato, a volte mi sono arrivate offerte dall’estero. Ma paesi troppo lontani per le mie aspirazioni. Mi alleno da sempre, non ho mai perso il contatto con il mio corpo. Spero di rientrare il prima possibile». E, intanto, Michael, dipinge. «Quando me ne sono andato, quando tutto è finito al Chievo, ho pensato: è solo un arrivederci. E ne sono ancora convinto. Il grande dispiacere è legato al fatto di essere arrivato dove volevo arrivare. Rimanendoci troppo poco per assaporare quel piacere. Mi sento uno da Chievo, da sempre». «L’anima cambia colore. Non è mai la stessa. E oggi sto vivendo un altro passaggio dentro la mia vita». Non è una passione. Semmai, si tratta di un talento. E l’ex attaccante gialloblù, friulano di Povoletto, ha deciso di iniziare un viaggio dentro a se stesso. «Sono sempre stato aperto a tutto. Pure la musica è fonte di ispirazione. Spazio dalla classica al metal punk. Più il territorio è vasto, e più e probabile trovare quello che cerchi». Anche se poi «so già cosa vorrei: il mio Chievo, quella maglia, quella storia. Che ha avuto un finale che proprio non mi aspettavo». Tela bianca, cuffie, silenzio, note. É tempo di chiudere col passato.

Simone Antolini

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