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La serata al Rivoli sul docufilm Sky

Bertolucci rivive la Coppa Davis: «Eravamo veramente una squadra»

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Lorenzo Fabiano e Paolo Bertolucci alla serata al Rivoli (foto Brenzoni)
Lorenzo Fabiano e Paolo Bertolucci alla serata al Rivoli (foto Brenzoni)
Lorenzo Fabiano e Paolo Bertolucci alla serata al Rivoli (foto Brenzoni)
Lorenzo Fabiano e Paolo Bertolucci alla serata al Rivoli (foto Brenzoni)

«Questo applauso lo condivido con i miei compagni di viaggio. Grazie ancora». Paolo Bertolucci termina così la serata al cinema Rivoli dedicata alla proiezione del film dal titolo «Una squadra», dedicato all’impresa dei tennisti azzurri che conquistarono la Coppa Davis nel 1976. Un docufilm firmato dal produttore Domenico Procacci per Fandango e Sky con il contributo fondamentale del rinnovato Istituto Luce. Da un paio di settimane sulla piattaforma a pagamento, «Una squadra» è il documentario più cliccato sull’opzione “On demand”. Un affresco dell’Italia degli anni di piombo. Si intrecciano storie di vita, sport, fatti e personaggi degli Anni Settanta. Adriano Panatta, Paolo Bertolucci, Corrado Barazzutti e Antonio Zugarelli alzarono al cielo del Cile l’insalatiera d’argento grazie al contributo del direttore tecnico Mario Belardinelli e del capitano non giocatore Nicola Pietrangeli. «È stato un grande lavoro» commenta Bertolucci, «soprattutto di ricerca e di materiale. Ho visto cose che avevo dimenticato e altre che ricordo ancor oggi. Ci buttavamo nella sport con passione e a volte senza paracadute. E poi siamo tornati per qualche ora giovani».

 

«Mio fratello»

Adriano Panatta, all’epoca numero 4 al mondo e Paolo Bertolucci numero 12, sono letteralmente cresciuti insieme. «Mio fratello praticamente» commenta l’ex davisman, «pure quando andammo ad abitare al Fleming in un appartamento di 50 metri quadrati. Lui cucinava e sporcava, io facevo lo sguattero. Davamo delle feste in quel buco, non so come facevamo. Era il periodo che Adriano filava con Loredana Bertè. Una volta arrivò insieme all’amico Renato Zero. Eravamo amici di molti personaggi dello spettacolo compresa la banda di Renzo Arbore e Gianni Boncompagni».

Una pellicola (come si scriveva un tempo) che spazia dall’agonismo, allo spettacolo per finire alla dura realtà di quegl’anni.

 

Politica&Sport

Infuriò la polemica già quando gli azzurri andarono in Sudafrica, in piena apartheid, ma soprattutto quando due anni dopo, nel 1976, a Santiago del Cile per la finalissima. «Non volevano farci andare» racconta l’ex rovescio più bello del circuito tennistico mondiale, «Il generale Pinochet era salito al potere con il sangue ed in Italia l’opinione pubblica si era opposto alla nostra trasferta. Molto duro fu il PCI e anche il capo del governo Andreotti non sembrano intenzionato a mandarci. Giocò un ruolo chiave Nicola Pietrangeli, il nostro capitano. Si battè come un leone».

 

Come andò

La storia, grazie all’intuizione dello scrittore veronese Lorenzo Fabiano, è stata modificata negli ultimi anni. Fondamentale fu l’azione della nostra ambasciata a Santiago. «Tomaso De Vergottini» racconta Fabiano, «era molto riservato ma teneva un diario dove annotava tutto. Ho avuto la fortuna di conoscere la moglie Annasofia, che all’epoca l’aveva seguito in Cile. Il nostro diplomatico insieme ad altre figure dell’ambasciata italiana salvò qualcosa come 700 persone che fuggivano dalla persecuzione dei militari. Ma la sua opera non si limitò a questo. Fu l’uomo, che insieme ad altri diede di fatto il lasciapassare gli azzurri a giocarsi la Davis». Come? «Barattando col regime due prigionieri politici di rilievo come Victor Canteros e Ines Cornejo, con l’arrivo della nazionale a Santiago. La Russia, ad esempio, si era rifiutata per protesta contro le torture e le sparizioni di massa, di disputare una gara di qualificazione al Mondiale del’74 in Cile. In quella circostanza andò in scena la commedia della Fifa, con i cileni che segnarono un gol per validare l’incontro senza avversari e qualificarsi. L’azione di De Vergottini fu, forse, l’opera più importante della nostra diplomazia».

«L’abbiamo scoperto solo pochi anni fa» commenta Bertolucci, «ma è la verità. Da noi l’estrema sinistra aveva assaltato la sede del Coni, ci davano dei fascisti perché volevamo andare a giocarci quello che avevamo costruito sul campo. Domenico Modugno, non uno qualsiasi, scrisse una canzone contro la nostra presenza in Cile, giusto per farvi capire il clima».

Poi andò a finire come tutti sanno. Barazzutti e Panatta si sbarazzarono di Filliol e Cornejo. Il nostro doppio ottenne il punto della vittoria. Per la prima e unica volta, la Coppa Davis prese la strada dell’Italia. Ma le magliette rosse? «Altra genialata di mio fratello» ride Bertolucci che con Panatta conquistò il punto decisivo a Santiago, «Volle scendere in campo con quel colore che era inviso ai militari. Nessuno però lo notò. Dopo la terza partita, al cambio negli spogliatoi ci mettemmo la maglia blu».

Una vittoria storica, ancor oggi ricordata. E poi ci sono loro: «I Quattro Moschettieri». Le loro vite e carriere. Non solo Panatta e Barazzutti ma anche Tonino Zugarelli che perse una finale a Roma nel 1977 contro Vitas Gerulaitis e Bertolucci, vincitore in singolo del torneo di Amburgo. Estrazioni sociali diverse, stili di vita agli antipodi ma insieme erano una vera squadra. Immagini rare e stupende. E poi c’è quel lob di Bertolucci nella semifinale contro l’Australia di Newcombe, Roche e Dent. «Non lo ricordavo ma spero di averne fatti altri» chiude Paolo, «ci siamo divertiti e come dice Adriano: “La gente è buona e ci vuole bene“. Almeno con noi è ancora così».

Gianluca Tavellin

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