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L'intervista

Piccoli, il veronese che sta facendo grande il Mantova: «Anche mio papà mi dà del matto. E forse Fresco si mangia le mani...»

L'intervista a Filippo Piccoli, fondatore di Sinergy e presidente del Mantova primo in Serie C
Filippo Piccoli allo stadio Euganeo di Padova
Filippo Piccoli allo stadio Euganeo di Padova
Filippo Piccoli allo stadio Euganeo di Padova
Filippo Piccoli allo stadio Euganeo di Padova

Lo spirito imprenditoriale vitaminizzato dalla passione, l’ambizione confusa all’emozione. E poi l’affetto e la gratitudine di Mantova che fa a cazzotti coi mugugni dei concittadini veronesi, un tantino caustici nel giudicare la sua avventura nel pallone. 
Filippo Piccoli è uomo dei due mondi, a modo suo. 
Uno che lo osserva un po’ storto, l’altro che ha imparato ad apprezzarlo e seguirlo.
Lui, veronese al cento per cento, fondatore e ad di Sinergy, vive la sua favola da presidente del Mantova dominatore della Serie C - recuperata a tavolino l’estate scorsa dopo la retrocessione sul campo - proprio mentre l’Hellas fatica a cavarsi dai guai in quello di A. 

Agonismo e antagonismo, tutto ok al di là delle bandiere: «Sono solo un imprenditore veronese che fin da ragazzo frequenta Verona», rivela dalla sua poltrona al Martelli, stadio e sede del club virgiliano. «Ero appassionato di calcio e andavo allo stadio. Poi ho unito il percorso della mia azienda all’Hellas. E penso che nella storia degli sponsor veronesi del Verona solo Canon mi abbia superato: a giugno saranno sei anni assieme».


Poi c’è Mantova...
Sì, dove son finito anche grazie al Verona, visto il rapporto con Setti. Verona che resta filo conduttore importante perché è la città in cui vivo e vivrò sempre. Io e i miei figli.

Il valore del campanile, la rivalità sportiva tra le piazze cosa rappresenta per Piccoli? 
Non la sento. Forse anche perché ho avuto la fortuna - o il vantaggio? - di essere stato molto ben accetto a Mantova, anche dalle frange anche più estremiste di tifosi.
Beh, quando arrivano i risultati la fortuna si chiama merito.
Tante cose dipendono anche dal modo in cui ti poni. È importante dire le cose come stanno, essere leali. 

Ragioni e sentimenti?
Io le cose me le prendo a cuore. L’anno scorso qui era un disastro. Sono subentrato in una situazione che non avevo creato ma la retrocessione del Mantova l’ho vissuta come una sconfitta personale. Potevo anche scappar via ma lì ho sentito la responsabilità di fronte alla gente che mi aveva dato fiducia e che mi aveva accolto bene. 

Ma l’ingresso nel Mantova era avvenuto con quale spirito? E quali obiettivi?
Io ho sempre avuto la passione per il calcio. Poi, due anni e mezzo fa, ho pensato di andare oltre la pura operazione commerciale nel Verona. E il nuovo punto di partenza poteva essere la Lega Pro. 

Non a Mantova però.

No, fallito il Chievo andai da Gigi Fresco, un amico, per un progetto nella Virtus indirizzato alla B. Però era sempre in ritardo agli appuntamenti. Magari ora è lì che si mangia le mani... In ogni caso dopo un anno di tira e molla sondai la Triestina: il proprietario, l’italo canadese Biasin, morì in un incidente proprio mentre ci accordavamo. 

È lì che arriva il Mantova?
Avevo creato questo rapporto di stretta collaborazione professionale con Setti, che a Mantova si era fatto carico di una realtà importante, carica di storia, per costruirci un progetto sano ma con un grande limite: l’antagonismo di Mantova nei confronti di Verona. E allora gli ho rilevato il 50 per cento delle quote e, a fine campionato, pure l’altro 50. Per poter cominciare a far tutto di testa mia. 

Quanto c’è di passione e quanto di interesse economico?
La cosa è nata come business ma nell’ultimo anno mi sono molto legato a Mantova, alla città e ai colori del Mantova. Oggi ci soffro. Abbiamo pareggiato domenica a Novara e non ci ho dormito la notte. Ti lascio immaginare dopo la retrocessione...

La ricetta del successo?
Qui mancava la professionalità. Il Mantova veniva visto come succursale del Verona e i giocatori quasi come dei ripieghi. Oggi il club ha figure professionali di spessore esclusivamente focalizzate sul progetto Mantova.

E i cori (frequenti) dei tifosi contro Verona? 
Ho avuto modo di chiarirmi con loro e non ci faccio neanche più caso. L’importante è che non portino multe. Io vado avanti per la mia strada.

E in famiglia, a Verona, nascono tifosi biancorossi?
Ho tre figli e soprattutto il più grande, Mattia, è molto coinvolto. Vengono allo stadio, sono i miei primi tifosi.

Dall’altra parte ci sarà anche qualche amico di Verona che avrà qualcosa da ridire...
Tutti i giorni, fin da quando è iniziata. E forse questo mi ha dato ancora più carica. Amici, parenti, colleghi veronesi, persino papà... Tutti a dirmi “Ma sei matto? Cosa vai a fare?”. Gli aspetti economici? Quelli non contano, restano cose mie. A Verona mi contestano la passione. 

Qualche ipotesi di vendere il Mantova e comprare l’Hellas?
Assolutamente no. Non riuscirei mai a fare calcio nella mia città.

Meglio il Verona salvo in A o il Mantova promosso in B?
Imbarazzante. Direi il Mantova in B. Con dispiacere.

L’idolo calcistico di Piccoli?
Michel Platini.

C’è qualcuno di questo Mantova che avrebbe le qualità per giocare nell’Hellas? 
Parecchi.

E Possanzini al Verona?
Lui sta dimostrando grandi capacità: ha il futuro scritto. 

Meglio essere descritti come il veronese che ha saputo stravincere fuori casa oppure come il mantovano (d’adozione) che ha riscritto la storia del calcio biancorosso?
La seconda, sicuro. 

C’è un sogno? Un obiettivo lontano su cui fantasticare? 
Certo che c’è. Però non lo voglio rivelare. Non oggi. 

Francesco Arioli

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