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L'intervista

Spagna: il Festivalbar, i gatti e Santa Lucia. «Borghetto? Non ci posso tornare. E quella torta di compleanno per Tina...»

La veronese Ivana Spagna racconta la sua vita, da Valeggio a Sanremo
Ivana Spagna al Festivalbar, da bambina e con Tina Turner
Ivana Spagna al Festivalbar, da bambina e con Tina Turner
SPAGNA

Borghetto luogo del cuore. E per sempre nel cuore. Ma proprio per questo Ivana Spagna non può vivere lì. Nonostante lo abbia sempre desiderato e abbia anche ristrutturato la vecchia casa dei genitori pensando di andarci ad abitare, poi «non ce l’ho fatta, non me la sono sentita, perchè lì ho sperimentato l’unico vero grande amore della mia vita, quello dei miei genitori, mia madre Gemma e mio papà Teodoro, e questo mi impedisce di tornarci ad abitare: verrei sopraffatta dalla nostalgia, dei ricordi del periodo più bello della mia vita». La cantante veronese originaria appunto di Borghetto che nel 1986 raggiunse il successo internazionale con il tormentone «Easy Lady» confessa così il suo grande legame e l’attaccamento per la città in cui è nata.


Ivana, ma lei allora è proprio una romantica, che si emoziona ricordando il passato. La sua è stata dunque un’infanzia felice?
Sono una grande sentimentale, sì, su questo non c’è dubbio: troppo sentimentale. Ma i miei genitori, per me e mio fratello, hanno fatto davvero tantissimo, dimostrandoci un amore incondizionato. Quando sono nata io era un momento di difficoltà economica, mio padre si è visto costretto a tornare a lavorare come operaio dove prima era il titolare: un’umiliazione che ha accettato senza mai ripensarci per noi, per la famiglia. Il suo per me è rimasto come il modello di un padre che davvero sa amare, così come mia madre con il suo sorriso. Avevamo una bianchima di terza mano: ma in quella vecchia auto viaggiava tutto l’amore del mondo. 

Esclusa Borghetto per «l’assalto» dei ricordi del passato, oggi vive sul lago di Como. Lì non la prende la malinconia?
Vivo a Como da 22 anni e in effetti tantissimi spesso mi chiedono che non è triste vivere sul lago quando piove. Rispondo sempre che la tristezza è dentro di noi, come la felicità: non dipende dal tempo nè dal luogo. Quello che credo di poter dire è che la famiglia splendida che ho avuto e l’amore dei miei genitori mi abbiano penalizzata. Avrei tanto voluto una famiglia che fosse come era stata la mia, ma non ci sono riuscita.

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Si dice «mai dire mai»...
Per carità, sei matta? Adesso non ci penso proprio. Ho i miei gatti e stiamo benissimo. Anche se mi hanno sconvolto la vita. E poi amo il mio lavoro.

I gatti: ma quanti ne ha?
Adoro da sempre i gatti. Al momento ne ho cinque che vivono in casa con me, Betty, Ivan, Enrichetto, Giorgina e Lupetto, più quelli che girano in giardino. Tutti trovatelli ovviamente. Solo che per colpa loro non posso più andare in vacanza! 

Torniamo a Borghetto: è nato lì, quando era bambina, il sogno di diventare cantante?
A dire la verità, da bambina io sognavo di fare la ballerina. Avevo anche chiesto a Santa Lucia le scarpette con il gesso: ero sempre in punta di piedi, non so quante ciabattine ho rotto a forza di stare sulle punte. Poi a dieci anni partecipai a un concorso canoro in paese e lì scoprii che mi piaceva molto antare. E quella è diventata la grande passione della mia vita: ho sempre adorato e adoro ancora il mio lavoro, che in realtà è molto più di un lavoro. Partito con un concorso canoro che mi pare si chiamasse GiroGarda nel 1969.

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Nel 1987 vince il Festivalbar con «Dance Dance Dance». Come è stato salire da vincitrice sul palco dell’Arena?
Una cosa straordinaria. Il Festivalbar era davvero uno spettacolo senza eguali e c’era proprio il senso del vincitore, perché stavamo in giro un paio di mesi con un tour che girava tutta l’Italia e solo alla fine, dopo tanti show, si arrivava a scegliere il vincitore. Di quella notte in cui ho vinto, mi resta poi un bellissimo ricordo. Quando sono uscita dall’Arena con la mia coppa in mano, mi si è avvicinato un ragazzino per un autografo. Mi parlava in inglese, io gli ho detto che potevamo parlare italiano; con me c’era Salvetti che mi ha chiesto a chi dedicavo quella vittoria. Risposi subito: a mio padre, a mia madre e al primo pianoforte a noleggio che mi hanno preso. Per i miei genitori fu una grandissima soddisfazione: purtroppo poco dopo mio padre si ammalò, ma fui felice di aver potuto «ricompensare» con quella dedica il loro grande amore.

Ma come si fa a scrivere un tormentone?
Cuore e ritmo. La regola è solo quella. Quando scrivo una canzone, quello per cui lotto è che voglio sentire emozione, e devo essere io la prima a sentirla. Il successo senza il cuore non esiste: poi certo servono il ritmo, la melodia, e via dicendo. Spesso ci si chiede perché la musica degli anni Ottanta sia ancora viva, piaccia ancora. L’unica regola di quella stagione è che c’era da una parte il ritmo che ti faceva ballare, ma c’era anche la melodia che faceva sì che il pezzo ti restasse in mente e che tu ti ritrovassi a canticchiarlo. Certo poi bisognava trovare la melodia giusta.

Lei ha conquistato anche la terza posizione al Festival di Sanremo 1995 grazie al brano «Gente come noi». A Sanremo poi è tornata varie volte: che cosa non dimentica dell’Ariston?
Sanremo è un’altra esperienza straordinaria. Il più divertente in assoluto fu quello al quale partecipai come ospite di Loredana Bertè. Stare con lei è come essere dentro un uragano: siamo molto diverse, ma Loredana è una persona splendida.

Ivana, è vero che lei ha preparato una torta di compleanno per Tina Turner?
Ah, si certo. C’è una foto che ci ritrae insieme con quella torta. Non solo: mi aveva invitato a questa festa e io non sapevo cosa prenderle come regalo. Volevo qualcosa che non fosse scontato. Amo dipingere: così pensai di farle un ritratto e di portarglielo. Solo che a Milano, dove mi trovavo, c’era molto umido e il colore rischiava di non essere asciutto in tempo, così ho messo anche il quadro in forno. Tina apprezzò moltissimo il ritratto: disse che lo avrebbe messo sopra il suo camino. Era davvero una persona stupenda, di incredibile umiltà.

Oltre 11 milioni di dischi venduti, traguardo per il quale nel 2006 le è stato consegnato il Disco d'Oro alla carriera, tante tournée e un pubblico che la segue fedele. La emoziona sempre salire sul palco o ci ha fatto l’abitudine?
Abitudine? No, ogni volta che devo cantare sono agitata, ho sempre paura. Sono reduce da alcuni concerti in Danimarca e anche lì ero molto emozionata. Poi però, una volta che il concerto inizia, mi sento dappertutto a casa mia. E ogni singola sera do il massimo: mai cantato in playback in vita mia, lo considero una mancanza di rispetto per il pubblico. E per me questa sarà un’estate piena di live, davvero ricchissima. Io credo comunque che noi artisti abbiamo verso il pubblico un grande debito: ogni persona che ci segue ci fa essere quello che siamo, e dove siamo.

Alessandra Galetto
alessandra.galetto@larena.it

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