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Le montagne «sacre»

Quelle cime che non dividono: dopo le polemiche, un libro che fa chiarezza

di Caludio Mafrici
Il volume «Sacre Vette» edito da Cierre, di Ines Millesimi e Mauro Varotto fa sintesi delle diverse posizioni e riflette sul vero significato dei simboli
La croce di vetta sul Catinaccio d’Antermoia, uno dei Tremila delle Dolomiti
La croce di vetta sul Catinaccio d’Antermoia, uno dei Tremila delle Dolomiti
La croce di vetta sul Catinaccio d’Antermoia, uno dei Tremila delle Dolomiti
La croce di vetta sul Catinaccio d’Antermoia, uno dei Tremila delle Dolomiti

Il ricordo di una preghiera costante (mons. Sanchez de Toca) o un segno di sopraffazione ideologica (Fausto De Stefani), un marker culturale (Marco Albino Ferrari) o di appropriazione del territorio (Mauro Varotto)? Oppure di conquista nazionalistica (Ines Millesimi). O specchio dell’evoluzione della società alpina (Fabienne Jouty)?

Le croci di vetta - e più in generale le immagini sacre che costellano le montagne - sono da tempo al centro di un dibattito anche acceso tra chi le intende simboli culturali, vessilli della tradizione cristiana, irrinunciabili punti di riferimento, e chi invece le considera uno schiaffo alla purezza dei monti e le vorrebbe eliminare o limitare.

In questo confronto, che a volte si fa scontro, si inserisce il bel volume «Sacre Vette. I simboli sulle cime» (Cierre Edizioni, pp. 149, 24 euro), curato da Ines Millesimi, dottoranda in Gestione sostenibile delle Risorse ambientali all’Università della Tuscia, e da Mauro Varotto, professore di Geografia all’Università di Padova. Un volume a più voci che prova a far sintesi delle diverse argomentazioni su un tema diventato di colpo sensibile e divisivo.

Ad accendere le polveri, la scorsa estate, era stata la presa di posizione del Cai, per voce del responsabile delle attività culturali, Marco Albino Ferrari, che aveva sostenuto l’inopportunità di innalzare altre croci di vetta. Ne erano seguite polemiche a non finire, anche politiche.

Sono oltre 4mila

Sulle Alpi le croci di vetta sono circa 4mila. Ma molte altre cime non vantano alcun segnale, o al massimo sono evidenziate da un ometto di pietre o da un palo. Oppure, e gli esempi non mancano, da simboli «altri»: statue, bandiere, cippi, edicole votive, bandierine tibetane. E anche rifugi e bivacchi. Alla base di ogni riflessione sull’argomento ci sono le motivazioni che, da millenni, spingono l’uomo a raggiungere il punto più alto. Che sono molteplici e che hanno mutato il loro significato nel tempo: necessità, difesa, fede, conoscenza, contemplazione, esperienza, piacere, competizione.

Ma non bisogna nemmeno dimenticare che per secoli la montagna alpina è stata vista come un luogo maledetto. Visione opposta avevano - e hanno - i tibetani, per i quali la vetta è «materna, benevola, vitale» (Ferrari). È dunque «difficile dare una risposta univoca», sottolinea Ines Millesimi nell’introduzione al volume, «ci addentriamo in uno spettro ricco di verità, così percepite anche se le riconosciamo non assolute. Una sola verità non rappresenta la complessità di una realtà».

 

In relazione al cielo

Salire «dove l’aria si fa sottile» mette alla prova «le tante sensibilità, profonde e alcune probabilmente meno. Che sono anche frutto», spiega Millesimi, «di una cultura personale, ambientale e civile che guarda al passato ma si proietta sul domani». Ecco allora l’idea di mettere in campo i diversi punti di vista (religiosi, scientifici, storici, professionali, ambientali, antropologici, giuridici, territoriali) sui significati delle croci di vetta, per «uscire dalle maglie riduttive e polarizzanti del grossolano opinionismo dei social».

E arginare «le dirompenti quanto fuorvianti fake news per giungere ad approdi più meditati, con una ricchezza riconciliante di analisi e di esempi». In ogni cultura, in tutto il mondo, «la montagna si presta ad essere simbolizzata proprio perchè contiene il punto più alto in relazione al cielo», ricorda Millesimi, «calpestabile da orma umana». La cima, in tutte le cosmologie, «racchiude o schiude la dimensione soprannaturale». Che spaventa ma anche attrae. E che va affrontata per andare oltre.

L’attenzione alle cime, nella storia dell’uomo, è esperienza tutto sommato recente. La nascita dell’alpinismo si intreccia all’illuministica «scoperta» della montagna, che in primis è culturale e scientifica, e solo in seguito religiosa. In alcuni casi la anticipa, in altri la consolida. Di certo, come spiega lo storico svizzero Jon Mathieu, «la croce, che commemora la morte sacrificale di Gesù Cristo, per molto tempo ha diviso il cristianesimo anziché unirlo. Con la Riforma, molti protestanti la consideravano una “immagine“, la cui venerazione era vietata dalla Bibbia. Per questo l’installazione di croci sommitali, iniziata intorno al 1800, era limitata alle regioni montane cattoliche. Nelle aree protestanti, le croci sono state collocate sulle cime solo in singoli casi a partire dalla fine del XX secolo».

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Progetto Redentore

Per Mathieu «esse testimoniano non tanto una nuova rinascita della fede, quanto il venir meno della cultura confessionale e religiosa. Il loro contenuto simbolico ecclesiastico è stato ampiamente dimenticato». L’altro aspetto che Mathieu sottolinea è che l’interesse della Chiesa per le croci di vetta si può far risalire all’iniziativa del Cristo Redentore lanciata per l’Anno Santo 1900 da un comitato nazionale «che progettò di collocare diciannove croci su cime importanti in Italia».

In seguito «l’erezione di croci di vetta fece parte delle imprese di gruppo di molte comunità cattoliche prese in carico dalle parrocchie locali, fino a quando questa tendenza si esaurì negli anni Sessanta. Da allora», ricorda lo studioso, «le croci di vetta sono principalmente progetti o iniziative di associazioni private, gruppi di amici o iniziative di singoli, il che ha contribuito alla loro proliferazione». Come si capisce, si tratta di un argomento che si presta a molteplici interpretazioni e risposte. Il volume di Cierre prova a mettere a confronto opinioni e dati in un’ottica multidisciplinare, per rimettere le croci in quello che dovrebbe essere il loro posto, e cioè un punto d’incontro.

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