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L'INTERVISTA

Paola Barbato: «Il dono, ecco il libro di cui sentivo il bisogno»

Milanese di nascita e gardesana di adozione, è compagna dello scrittore Matteo Bussola, da cui ha avuto tre figlie e con cui vive a Verona. La scrittrice e sceneggiatrice è famosa anche nel mondo dei fumetti
La scrittrice Paola Barbato presenterà «Il dono» a Brescia il 7 maggio
La scrittrice Paola Barbato presenterà «Il dono» a Brescia il 7 maggio
La scrittrice Paola Barbato presenterà «Il dono» a Brescia il 7 maggio
La scrittrice Paola Barbato presenterà «Il dono» a Brescia il 7 maggio

Ai successi editoriali è abituata. Paola Barbato, milanese di nascita e gardesana di adozione, compagna dello scrittore Matteo Bussola, da cui ha avuto tre figlie e con cui vive a Verona, pubblicherà il 9 maggio il nuovo romanzo «Il dono». Thriller edito da Piemme, segna un ulteriore passo avanti nel percorso della scrittrice e sceneggiatrice famosa anche nel mondo dei fumetti - soprattutto grazie alla lunga militanza fra gli autori di punta di Dylan Dog.

«È stato il mio cuore. Non sono stato io»: «Il dono» si apre così, come una canzone che comincia col ritornello. Un libro frutto dell’urgenza?
È un libro che ha dovuto aspettare, figlio di un’idea che ho avuto assieme ad altre alle quali ho dato la precedenza. Ho aspettato che venisse il suo momento, perché non era semplice da scrivere. Dovevo informarmi su una quantità enorme di cose, sui trapianti e non solo, e temevo che sarei diventata pedante: non potevo dare solo libero sfogo alla fantasia, c’era tutta una serie di elementi impossibile da ignorare.

Studio matto e disperatissimo, più che mai.
Con un imprevisto buffo, diciamo così. Avevo iniziato a scrivere e tramite amici-di-amici-di-amici ero finalmente entrata in contatto con un chirurgo specializzato nei trapianti. Avevo spremuto quel pover’uomo come un’arancia, preparando tutto compresa la penna giusta per prendere gli appunti più chiari possibile. Era l’agosto scorso. Ebbene, non ho mai saputo dove mi fossi segnata le risposte. Mai più trovato niente, e sì che ho cercato ovunque. Quel che ricordavo è stato la base da cui sono partita: sono andata a memoria.

Idea di fondo, il cuore di un donatore serial killer che riprende vita autonoma: a cosa si è ispirata?
Gli spunti nascono in maniera volatile. Mia zia Adele, morta da più di 10 anni, una volta dovendo fare una trasfusione di sangue si lamentò perché lo vedeva scuro: «Non vorrete darmi quello di un ubriacone, non voglio mica cominciare a bere anch’io adesso». Come a dire: se ricevo una cosa da una persona cattiva divento cattivo.

Paure ancestrali.
Tribù vietavano passaggi di sangue e di organi nel timore del lato malvagio che si può ereditare da altre persone. Non dimentichiamoci che fino a poco tempo fa c’era chi aveva paura ad iscriversi fra i donatori di organi perché temeva che qualcuno l’uccidesse per averli.

«Il dono» non sfugge a una regola dei romanzi barbateschi: le cose non stanno mai come sembrano.
Sì, perché penso che stiano sempre almeno in due modi diversi e racconto sempre le varie versioni. Tuttavia non si tratta di smentire l’una con l’altra: semmai, di integrarle.

Ogni libro una creatura: come definirebbe l’ultimo nato?
Buono e mansueto. Mi capita che i libri che scrivo non corrispondano a urgenze: questo invece è un romanzo di cui avevo bisogno. Per certi versi lenitivo, visto che l’ho scritto in un periodo di grandissima fatica fisica e psicologica. Si è preso le mie tensioni, le mie pesantezze, e le ha portate via. È un libro che ha richiesto più tempo rispetto al consueto, ma la gestazione più dilatata nel tempo non è stata un problema.

Quanto impiega di solito?
Più o meno 3 mesi a romanzo. Qui invece sono partita in ritardo e finita lunga: avevo cominciato 7 mesi fa.

«Il dono» fra i ringraziamenti cita il suo gruppo di «betaleggenti» ed è dedicato ad Elisa.
Come sempre le mie amiche lettrici sono state fondamentali e in questo caso una in modo particolare, scomparsa proprio il giorno della consegna del libro. Era così dispiaciuta di non poter partecipare che se lo faceva raccontare. Il suo sostegno c’è stato comunque. E il suo posto non è vacante: sarà sempre con noi.

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Gian Paolo Laffranchi

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