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San Pietro in Cariano

La strage di Corrubbio: «Persi il papà nella notte della polveriera»

Il 25 aprile 1945 nell’esplosione morirono 29 paesani e 7 tedeschi. Righetti aveva 4 anni: «Ricordo ogni momento»
Renata Righetti e la foto del padre Edoardo morto a causa dell’esplosione della polveriera nel 1945
Renata Righetti e la foto del padre Edoardo morto a causa dell’esplosione della polveriera nel 1945
Renata Righetti e la foto del padre Edoardo morto a causa dell’esplosione della polveriera nel 1945
Renata Righetti e la foto del padre Edoardo morto a causa dell’esplosione della polveriera nel 1945

«Ricordati». È un testamento. «Mia mamma mi ripeteva: Ricordati. Io, quella notte, me la ricordo bene. E bisogna che nessuno la dimentichi».

A casa della signora Renata Righetti, classe 1941, c’è un vaso di fiori freschi sul tavolo del salotto; un gatto riposa su una sedia, e tante foto alle pareti. «Ecco mia mamma: Plinia Perantoni», dice, indicando l’immagine di una signora bruna dai lineamenti forti e dallo sguardo vivo. Somiglia molto a Renata, sia nell’aspetto curato sia nel carattere deciso. 

Il 25 aprile 1945, alle 22.30, la polveriera di Corrubbio - un grande deposito di munizioni ed esplosivi ricavato dentro una ex cava di tufo alle porte del paese - venne fatta scoppiare dai tedeschi in fuga. Morirono 29 civili e numerosi soldati tedeschi, di cui solo sette identificati. Renata aveva quattro anni appena, suo fratello Oreste cinque e mezzo, ma quella notte apocalittica le si impresse nella mente. «Abitavamo nel centro di Corrubbio, in via Cedrare. Mio papà Edoardo era falegname e gestiva il laboratorio di famiglia con i suoi due fratelli minori», racconta Renata. «Potevamo dirci benestanti». 

Tempi bui

I tempi, però, stavano diventando cupi. «Fino a quel momento, la guerra non era stata molto percepita in paese. Sì, i tedeschi avevano preso alloggio in diverse abitazioni e, davanti a casa mia, tenevano il quartier generale fatto di baracche di legno. Ma non c’era ostilità. Anzi, parecchi soldati - giovanotti privi di spirito bellicoso - avevano fatto perfino amicizia con la nostra gente». 

«Si sapeva però», sottolinea Renata, «che l’ex cava di tufo, al margine del paese, era piena dei loro esplosivi. Così, quando le vicende cominciarono a precipitare, papà disse a mia mamma: Non sono tranquillo. Prendiamo in affitto una stanza a Castelrotto». E così fecero: «Alla mamma spiaceva abbandonare casa, si temevano sciacallaggi. Papà la rassicurava: È per pochi giorni. Ci ospitò una famiglia e là fu necessario portare solo il letto matrimoniale. Ma la mamma volle a tutti i costi anche il suo comò con la dote. In fianco alla canonica di Castelrotto era stato ricavato un rifugio antiaereo. Sapevamo di doverci riparare lì dentro in caso di emergenza». 

Angosciante attesa

E venne la sera del 25 aprile. Due amici del padre corsero a cercarlo: «I tedeschi scappano e vogliono bruciare il paese. Vieni con noi: se raduniamo un po’ di uomini, forse riusciremo a spegnere una parte dei focolai», ricorda Renata. Riprende fiato e continua: «Mia mamma si aggrappò a mio padre: Non andare! Ma lui la rassicurò invitandola ad andare al rifugio».

Plinia si rassegnò a infilarsi nel riparo con i due figlioletti e la suocera Vittoria, per iniziare un’angosciante attesa: «All’improvviso, un boato mostruoso», prosegue Renata. «La polveriera!», urlò la mamma. Ci fu una tempesta di pietre e una scossa di terremoto. Appena fu possibile, lei corse fuori. Tutto era avvolto in una fitta nebbia giallognola. Chiese alla prima donna che incrociò: Cosa c'è a Corrubbio? Più niente, gridò quella, sconvolta». 

Subito mamma Plinia affidò alla suocera i due bimbi e si lanciò verso il paese alla ricerca di Edoardo. «Non so quante ore passarono», riprende Renata, con voce rotta. «A un certo punto, non sapendo che fare, mia nonna ci prese per mano e ci incamminammo sulla strada buia, verso Corrubbio. La polvere gialla del tufo ricopriva ogni cosa, anche i cadaveri in uniforme riversi a terra. Erano tedeschi in fuga, uccisi dallo scoppio». Nel frattempo, Plinia era riuscita a trovare il marito a Villa Amistà, nel salone grande, in cui erano stati deposti i molti feriti. Colpito alla testa dalle pietre scaraventate in aria dall’esplosione, Edoardo era in fin di vita. 

«Con la forza della disperazione», ricorda Renata, «la mamma si fece prestare un cavallo col carretto per tentare di trasportare mio papà all’ospedale di Bussolengo. All’epoca, infatti, quello di Negrar era poco più di una casa di riposo. Quando, verso la fine della notte, arrivò al ponte di Pescantina, truppe tedesche le sbarrarono il passo. Lei supplicò: “Ho un ferito”. Le risposero: “Signora, il ponte è già minato. Se passa, non potrà più tornare indietro”. Appena lo ebbe attraversato, il ponte crollò». 

Plinia era riuscita nell’eroica impresa di raggiungere l'ospedale. Ma nel cortile, il medico che accoglieva i feriti analizzò velocemente Edoardo; capì che non c'era niente da fare e sentenziò: «Non vale la pena portarlo dentro». 

A nulla valsero le proteste della donna, che giunse a strattonare il medico per il camice. Conclude Renata: «Mia madre vegliò mio padre fino a quando si spense. Erano le 8 del 26 aprile. Per tornare a Corrubbio da noi, riattraversò l’Adige in barca. Io e il mio fratellino Oreste eravamo rimasti orfani; mia mamma vedova a soli 29 anni e senza più casa».

 

Lorenza Costantino

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