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dopo il no al referendum da parte della Consulta

Eutanasia, la rabbia di Alessandra: «Amo la vita ma non voglio marcire su un letto: perché non posso decidere?»

di Camilla Ferro - Camilla Madinelli
Alessandra e Teresa
Alessandra e Teresa
Alessandra e Teresa
Alessandra e Teresa

Un milione e 200mila italiani hanno firmato per avere una legge sull’ eutanasia. Non è la richiesta di pochi disgraziati, è una urgenza popolare e sono molto preoccupata per lo stato di salute della democrazia italiana, visto che con la bocciatura del referendum da parte della Corte Costituzionale, è malmessa pure lei. E tanto». La domanda Alessandra Fraccaroli, 37 anni, tetraplegica da 22 dopo un incidente stradale poco distante dalla sua casa ad Illasi, parla di fallimento, di derive oscurantiste e di «pelose» strumentalizzazioni.

«Ma perché», domanda, «se io fossi svizzera o belga, avrei la libertà di sottrarmi all’oltraggioso accanimento terapeutico ma, dato che sono italiana, sono obbligata alla perdita di un diritto sacrosanto, che non conosce confini, quello di decidere del mio corpo, della mia vita, di me? Perché se uno ha le gambe buone per buttarsi giù da un ponte lo può fare, mentre io, che non cammino e sono immobile dal collo in giù, sono obbligata a subire l’umiliazione di non far valere la mia volontà, per il semplice fatto che non posso schiacciare un bottone nè lanciarmi contro un treno?».

La scelta Di più ancora: «Perchè c’è chi, non vivendo la mia condizione disumana, può decidere cos’è giusto per me, senza sapere cosa significhi sopravvivere tra dolori lancinanti, senza dormire la notte, imprigionata in un corpo che non controllo e che è quotidianamente manovrato dall’esterno? Provino loro, gli uomini della legge o i politici che ne fanno una questione di battaglie partitiche, a stare anche solo un’ora nelle mie scarpe, senza potermi asciugare le lacrime quando piango (e piango tanto, per rabbia e per il male), senza uscire mai da casa, senza mangiare e bere da sola, senza poter essere padrona di niente. Mi è rimasto di buono solo il cervello ma se perdo pure quello io non sono disposta ad andare avanti: già faticherei ad accettare di respirare con la tracheotomia, ma se dovessi rinunciare all’unica facoltà che ha ancora una parvenza di vita, che è il pensiero, la capacità di viaggiare con la mente, di ragionare, di parlare, di riflettere, ecco, basta, ho già detto a più persone cosa fare». Alessandra è una convinta sostenitrice del «fine vita dignitoso» quando «la vita non lo è più, quando un essere umano si riduce a vegetare senza coscienza: senza l’intelletto, io mi fermo, non sono disposta a sopportare oltre questo calvario».

La fatica E aggiunge, emozionandosi: «La mia fatica, fisica e psicologica, nessuno la capisce se non chi si trova a viverla. Io ho resistito tutti questi anni solo perché ho la mia famiglia a completa disposizione, perché mia mamma e i miei fratelli si sono sacrificati dal primo giorno per assistermi, perché loro sono le mie mani, le mie braccia, i miei occhi, anticipano ogni mio bisogno, sanno cosa mi serve, mi fanno tutto, dall’igiene allo svuotamento delle viscere, mi tirano su dal letto al mattino e mi ci rimettono alla sera, mi appoggiano la cannuccia per bere e mi imboccano, mi curano le piaghe, mi massaggiano le gambe, mi tengono la mano quando urlo dai dolori, mi consolano, mi distraggono quando lo star chiusa tra queste quattro mura diventa insostenibile. Cos’è tutto questo, è vita? Io la vita la amo, la adoro, sopporto tantissimo per lei ma non sono disposta a marcire su un letto con l’elettroencefalo piatto. Nessuno può chiedermi tanto». Mamma Teresa la guarda con gli occhi lucidi e sospira. «No, non ci posso pensare. Io non potrei mai lasciare andare via Alessandra con un gesto volontario», dicendolo si massacra le mani, «è contro natura, sarebbe una violenza che non sono disposta ad accettare, men che meno a compiere: non potrei mai essere sua complice, so come la pensa, so quanta fatica fa a sostenere questa croce sempre più pesante; siamo soffocate dalla burocrazia e in perenne lotta per avere un’ora di fisioterapia piuttosto che un’ora di assistenza con l’operatrice, ma lottiamo tutti i giorni per i diritti di Alessandra, per la sua dignità. Quello che ci viene dato dallo Stato arriva a coprire un millesimo di quello che serve e anche questo è motivo di scoramento. Ma siamo qui, combattiamo, lei non è sola».

L’amore E butta lì che «l’ideale sarebbe chiudere gli occhi insieme, quando Dio vorrà, perché nessuna delle due potrebbe stare senza l’altra. Io non posso immaginare atto più crudele», continua Teresa, «che toglierle la vita dopo che gliel’ho data. Anche se è tutto dannatamente difficile, anche se ci fanno impazzire con carte, firme, timbri; anche se è logorante ed è umiliante presentare di continuo moduli al distretto per le sonde, i guanti, le sacche, come se Alessandra potesse all’improvviso camminare sulle acque. La rabbia, la fatica, l’impotenza di fronte a queste assurdità ci tolgono tanta energia, dovrebbero risparmiarcele e invece è sempre peggio».

La sofferenza Alessandra vuole convincerla: «Mamma, se mi ami davvero devi lasciarmi andare: se dovessi perdere coscienza, di me rimarrebbe solo un ammasso di muscoli dipendente dalle macchine, non avrebbe senso, a che ti servirebbe avermi così? Se diventassi una malata terminale voglio che sia rispettata la mia volontà fermando quella che sarebbe solo sopravvivenza biologica. Lo dico con sofferenza, perchè questa mia scelta in realtà è l’urlo disperato di chi la vita la ama, l’ha sempre amata e se la sta tenendo stretta nonostante la sua disumanità, ma c’è un limite oltre al quale non sono disposta ad andare». Alessandra chiede solo pietas.

 

LA STORIA DI SIMONE

Un inno alla vita. Anche se per mangiare, alzarsi dal letto o lavarsi ha bisogno sempre di aiuto perché non può usare né gambe né mani. Una voglia pazzesca di cantare, suonare l’armonica a bocca, parlare con gli amici, scherzare. Di dare il massimo, insomma, per quel che si può e magari anche oltre. Di guardare avanti, con positività. Anche se fare una passeggiata, praticare sport o bere da solo non è più possibile. Anche se certi giorni sono duri.

Senza dubbi Simone Cristofoli, 43 anni, di Mozzecane, tetraplegico da quando ne aveva 22 a seguito di un incidente stradale a Villafranca, non ha dubbi: «Io vado avanti, io voglio vivere», dice. L’idea di mettere fine alle sofferenze con la morte non l’ha mai sfiorato, sostiene, nemmeno nei momenti peggiori. «Ho ancora tante cose da fare», sottolinea. «Mi sono aggrappato alla musica, all’hard rock che adoro, e questa passione mi ha letteralmente salvato. Non intendo mollare e non vedo l’ora di tornare a esibirmi dal vivo in qualche concerto, non appena le restrizioni Covid lo permetteranno». Perché Cristofoli sa fare anche questo: salire sul palco con la carrozzina elettrica, e cantare brani delle sue band preferite dai Metallica ai Guns ’N Roses fino all’intramontabile Vasco Rossi.

Sul palco «È stata la mia prima battaglia, quella di tornare sul palco, e l’ho vinta», racconta. «A volte mi dicono che sono pazzo, ma perché? Avevo nove anni quando ho iniziato a cantare sotto la doccia, da ragazzo mi esibivo con un gruppo di amici e ho imparato a suonare la chitarra. Ora posso ancora cantare, e canto. Tra l’altro grazie agli esercizi per voce e respirazione», rivela, «ho la cassa toracica di una persona normale. E mica lo dico io, lo dicono i medici. Dopo sei mesi di tracheotomia e ventilazione meccanica, ho detto addio a quell’apparecchio e mi arrangio piuttosto bene». La scelta È parecchio occupato a vivere, Simone. Sul tema dell’ eutanasia, tornato alla ribalta dopo il no della Consulta al referendum, dice di essere per la libertà di scelta dato che esperienze, dolori e disabilità sono tutti diversi tra loro. E con tanti livelli differenti di gravità. «Rispetto le idee e decisioni di ognuno, la questione è delicata e molto personale, ma il mio invito è a non arrendersi. A trovare la forza di vivere, sempre e comunque. Anche dopo cambiamenti inimmaginabili delle proprie condizioni, com’è capitato a me».

Lo sconforto Simone conosce il dolore del corpo, la rabbia dell’anima, lo sconforto e la fatica. «Ogni tanto urlo e mi sfogo», ammette. Ricorda i 70 giorni passati all’ospedale di Borgo Trento, in Terapia intensiva, all’indomani dell’incidente: «Era il 6 settembre 2000, quella data ce l’ho scolpita in testa. Da allora è cambiato tutto». Poi racconta degli otto mesi di ricovero all’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, nei reparti dedicati alla riabilitazione. Senza contare controlli e qualche complicanza strada facendo. Ma il sorriso non si è spento, la forza di volontà non è mai venuta meno. «Quando mi metto in mente di fare una cosa, eccome se la faccio», continua. Sana testardaggine, la sua, che lo ha spinto a non commiserarsi mai. «Prima dell’incidente ho vissuto una straordinaria esperienza di obiettore con la cooperativa “Luce e lavoro” di Verona, dove ho conosciuto persone disabili che mi hanno aperto gli occhi. Quando sono passato anche io dall’altra parte, ho capito quanto mi avevano insegnato e ne ho fatto tesoro».

La testimonianza Cristofoli ha portato negli anni la sua testimonianza nelle scuole, parlando di sicurezza stradale, disabilità e rispetto. Le mani sono bloccate, ma ha imparato a usare il cellulare da solo. Con il programma vocale del computer ha scritto un libro, si è messo a studiare l’inglese e ha quarantaquattro testi di canzoni già pronti. È socio del Galm, il gruppo animazione lesionati midollari, anche se non partecipa come vorrebbe: «Salgo raramente in auto, perché mi è rimasta la paura dopo quello che ho vissuto», racconta con un po’ di rammarico. È stato a Lourdes due volte: a chiedere il miracolo? «No, assolutamente - ammette con determinazione - volevo solo vivere un’esperienza forte. E lo è stata». Abita con i genitori, ma ha attivato un progetto di “Vita indipendente” grazie al quale una persona lo aiuta nella quotidianità. È il suo angelo e si chiama Rosalia. «Dipendere sempre da qualcuno non è facile - conclude - ma così è. Io continuo a guardare avanti. Non mo fermo e non mi arrendo».

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