<img height="1" width="1" style="display:none" src="https://www.facebook.com/tr?id=336576148106696&amp;ev=PageView&amp;noscript=1">
La storia

Cresciuta vedendo il padre che picchia la madre: «Era normalità, ma con il Krav Maga sono rinata»

La disciplina di autodifesa nata in Israele ha aiutato Alba a trovare una via d’uscita per se stessa e per la sua famiglia. E le ha dato anche il coraggio di parlare
Tecniche per difendersi da una aggressione: istruttori e allieve durante una lezione
Tecniche per difendersi da una aggressione: istruttori e allieve durante una lezione
Tecniche per difendersi da una aggressione: istruttori e allieve durante una lezione
Tecniche per difendersi da una aggressione: istruttori e allieve durante una lezione

A otto anni in cameretta guardava la cesta dei giochi pensando che svuotandola poteva essere un buon nascondiglio per il fratellino, per quando a papà venivano «i cinque minuti». A 13 anni credeva che «i cinque minuti» fossero la norma in famiglia e che i papà picchiassero le mamme. A 16 quei «cinque minuti» l’avevano resa refrattaria ai maschi, giovani o adulti che fossero. Una repulsione tale da non farsi neppure sfiorare da loro. 

Ad aiutarla ad affrontare quella gioventù iniziata in salita è stato il krav maga. Oggi Alba (il nome è di fantasia) ha 24 anni e da otto segue i corsi di Francesco Carmagnani e Tiziana Sambugar, di Povegliano, istruttori dal 2014 che tengono lezioni con la loro Eagle team asd, a Verona e in provincia. Disciplina nata per l’autodifesa delle forze di sicurezza israeliane, il krav maga è oggi scelto dalle donne come forma di difesa personale, per avere maggior consapevolezza dei pericoli e sentirsi più sicure sapendo come affrontarli. 

Repulsione del contatto fisico

Ma per Alba è di più. Perché il krav maga l’ha aiutata a vincere la repulsione al contatto fisico e a ricostruirsi diventando la donna che è oggi: ferita, ma forte; non più chiusa, ma accorta. «Grazie al Krav sono tornata a contatto con le persone. Vivo programmata, è vero, ma tutto in modo pensato per sapere cosa potrebbe succedermi e come trovare soluzioni o vie di uscita al pericolo». Cosa non di poco conto per la vita che deve affrontare. 

Non è facile per Alba raccontarsi. I movimenti della figura longilinea e gli occhi grandi infondono una pace consapevole. Ma dentro ci sono i giorni dell’infanzia, di paura e dolore, che ha affrontato senza che nessuno le spiegasse come fare e che non sono finiti. Quando è arrivata al corso, non guardava in faccia né parlava con Francesco. Non sopportava la presenza maschile. Ma con l’andar del tempo la tensione si è sciolta. «Francesco e Tiziana riescono a osservare e a capire, non fanno domande e in base al tuo stato emotivo sanno il modo migliore per insegnarti una tecnica. E se trovo una persona “umana” che capisce e non giudica, posso parlare di cosa è successo». 

Alba inizia dal principio: «Ho vissuto in un contesto familiare provante». Poi scioglie le titubanze e va a ritroso a quando era piccola e vedeva papà nei cinque minuti d’ira che riversava sulla mamma. Vi assisteva impotente, convincendosi pian piano che fosse la normalità. «Le persone come lui non riconoscono il fatto, lo sminuiscono, e i bambini che crescono in un contesto in cui l’adulto, punto di riferimento, minimizza quelle reazioni esasperate, credono sia normale. Così ho coltivato solo amicizie femminili, non volevo essere toccata, né avere uomini a fianco». 

Il giro di boa: «O me o lui»

Poi la scuola, gli autobus pieni con le persone addosso, le risposte incredule delle amiche quando chiedeva: «Ma tuo papà ha mai dato una sberla a tua mamma?». Ha cercato esempi all’esterno, Alba. Trovando la conferma che no, non è normale, lo schiaffo. «Allora capisci che sta sbagliando lui e dal senso di colpa e dalla paura, si passa al dolore, infine al distacco». Che ti aiuta a trovare una via di fuga. 

«Finché ho detto alla mamma di scegliere tra me o lui. Non avevo dubbi sulla risposta». Così Alba può dire alla madre che è con lei. Le cose non dette diventano un legame stretto di alleanza che le rende forti al punto da poterne parlare e fare qualcosa perché quella persona - brillante e gioviale in pubblico - smetta di annullarle. Seguono denunce, quasi sempre inutili, poi la richiesta di divorzio, infine «il giorno in cui siamo riuscite a chiuderlo fuori casa».

«Quando fai qualcosa», continua, «inizi a risolvere il problema. La reazione ti aiuta a volerne parlare, a far notare che c’è un problema. Per noi è stato determinante capire quando fermare la situazione. Oggi la mia famiglia è guarita, abbiamo fatto quello che si poteva». 

Nel frattempo è arrivato il krav maga. «Volevo sentirmi sicura, avere la sensazione di essere forte nonostante fisicamente sia, ed è evidente, più debole. Ora so agire in un momento di panico e trovare una soluzione al pericolo, che sia il difendermi o sapere come fuggire. Non è agonismo, è autodifesa, è uscire da chi ti trattiene, è trovare un’arma di difesa in qualsiasi oggetto: una bottiglietta d’acqua, la stringa della borsa... Sviluppi a livello psicologico capacità di trovare soluzioni».

Alba non ha mai dovuto usare il krav sul padre, ma le ha insegnato a prevenire i pericoli, a essere accorta. Non è finita per lei. Ma si è laureata e lavora. «Ora non guardo più indietro a cosa mi è stato impedito di fare o di diventare, guardo a quello che sono diventata grazie anche a questa esperienza». 

Vittime giudicate

La sua però è una storia di sconfitta della società. Lo riconosce, Alba: «La gente si chiede sempre perché la vittima non reagisce e se si è impegnata abbastanza. Non sempre si può reagire. Le vittime sono costrette a subire. Non basta la volontà. Io sapevo con chi avevo a che fare: una persona grande il doppio di me, forte fisicamente. E ci sono fattori psicologici, la paura di essere separati dalla mamma, le madri temono di perdere i figli». Fino al paradosso di rischiare un affidamento congiunto. 

«Non è mai un raptus», mette in guardia Alba. «I violenti prima ti distruggono mentalmente e poi arriva il ceffone. E non basta andarsene. Loro ti cercano, insistono, piangono, minacciano il suicidio, dalla disperazione passano all’improvviso alla rabbia, sanno come trovarti, ti capitano sotto casa, ti telefonano. Non puoi andartene, non puoi reagire e non puoi controllare la persona. Io non ho più voluto vederlo, né parlarci, ma nella mia vita c’è molta prevenzione in ogni cosa che faccio».

Soluzioni? «Serve un sistema di denuncia in anonimato: oggi chi denuncia torna a casa dove c’è il suo aggressore che sa della denuncia. Si deve imparare che la vittima è vittima. Infine vanno aiutati i violenti con persone qualificate sul problema». 

Corso di difesa Krav Maga: da sx istruttori Francesco Carmagnani, Tiziana Sambugar e Marco Sega
Corso di difesa Krav Maga: da sx istruttori Francesco Carmagnani, Tiziana Sambugar e Marco Sega

«Non è questione di menar le mani, ma di sentirsi sicure»

Dalla studentessa di 17 anni all’architetto di 60, gli iscritti ai corsi di Francesco Carmagnani e Tiziana Sambugar, che praticano Krav Maga da vent’anni, sono vari. E diverse sono le motivazioni: «Le donne sono spinte per motivi di autodifesa, le mamme portano le figlie. Non è questione di menar le mani», spiegano, «ma di avere la sensazione di essere tranquille e la situazione sotto controllo. Dopo il corso dicono che guardano più la strada e meno il telefono, si sentono meno vittime perché possono giocarsi una tecnica di difesa. Non si cancella la paura, si attenua».

Gli istruttori si sono preparati con maestri italiani e israeliani. Oggi Eagle team asd collabora anche con i Comuni. 

Maria Vittoria Adami

Suggerimenti