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La storia

Farah: «Mia cugina mangiava dei biscotti mentre mia madre mi faceva abortire»

Farah racconta in tv la sua odissea: «Quando ho detto che aspettavo un figlio è iniziato l’inferno. Per loro era un disonore»
Farah con una poliziotta
Farah con una poliziotta
Farah con una poliziotta
Farah con una poliziotta

«Mia cugina era lì, accanto a me, che mangiava biscotti come fosse al bar, mentre mia madre assisteva quella pseudo-infermiera ingaggiata contro la mia volontà per farmi abortire. Mi avevano legato braccia e gambe. Mi avevano anestetizzata, ma non così bene tanto che, ad un certo punto, mi sono svegliata in un mare di sangue. Ero di quattro mesi».

A parlare è Farah Tanveer, oggi 23 anni, pakistana arrivata a Verona con la mamma e i fratelli quando ne aveva 9, per ricongiungersi al papà che nel frattempo aveva trovato lavoro in città. L’altra sera, da donna «finalmente libera», ha raccontato la sua odissea alla trasmissione tv «Dritto e Rovescio» dedicata alla violenza sulle donne dopo la richiesta-choc del pm di Brescia di assolvere un musulmano a processo per maltrattamenti alla moglie: picchiare, segregare, umiliare, punire la propria donna fa parte di «un impianto culturale» - queste le parole del magistrato - tale da giustificare «la compressione delle libertà individuali e materiali». Eh no, non è così. E Farah era lì per testimoniarlo.

L’inferno

«Appena arrivo a Verona nel 2008», racconta Farah, «anche se sono una bambina mi rendo subito conto che qualcosa in casa mia non va: troppe differenze tra me e le mie compagne di scuola, io non posso fare nulla, niente piscina, niente abbigliamento adatto alla mia età, guai i pantaloncini corti d’estate quando il caldo è insopportabile, nessuna possibilità di andare a studiare dalle amiche, se proprio vengono loro da me. È un modo per i miei genitori di tenermi sotto controllo e io capisco da subito di non essere libera». 

Farah Tanveer, oggi 23 anni, pakistana, ha raccontato  il suo inferno in famiglia a Verona
Farah Tanveer, oggi 23 anni, pakistana, ha raccontato il suo inferno in famiglia a Verona

La gravidanza interrotta

Passano gli anni e Farah, crescendo, si innamora di un compagno di classe, la relazione è importante tanto che, a 18 anni, resta incinta. «Dico a mia sorella e a mia mamma che aspetto un bambino e lì inizia l’inferno», continua a raccontare, «i miei genitori vogliono che abortisca perché il mio ragazzo non è musulmano, naturalmente mi rifiuto, sono maggiorenne e nessun medico può praticare l’interruzione di gravidanza senza il mio consenso».

La tensione in casa cresce, la vita di Farah e la sua scelta «disonorevole» per la famiglia è destinata a non rimanere impunita. «Con l’inganno mi portano in Pakistan», la giovane rivive quel viaggio drammatico, «mi dicono che è per il fidanzamento di mio fratello, ingenuamente mi fido. Appena atterriamo nel mio Paese d’origine, mi tolgono subito il cellulare per impedirmi di avere contatti e mi sequestrano in casa, chiusa dentro ad una stanza».

Farah non ha modo di chiedere aiuto a nessuno, capisce che si mette male per lei. «Cominciano a portarmi da vari ginecologi», prosegue il racconto, «che però si rifiutano di procedere perché sono già di 4 mesi. Alla fine mia madre trova una infermiera improvvisata che clandestinamente accetta il lavoro: la donna viene in casa, mi anestetizza e mi lega, riesco però nel corso dell’operazione a riprendere coscienza, mi ritrovo imprigionata, impossibilitata a muove mani e gambe, sono stordita ma vedo che c’è mia cugina che mangia biscotti come niente fosse mentre mia mamma al telefono che parla con qualcuno e credo racconti che è tutto finito».

Oggi Farah sta bene. «Vivo da sola e ho un bambino», sorride, «lavoro e mi sto per iscrivere all’università». Ha avuto coraggio e può raccontarlo. Non come Saman Abbas ammazzata dai genitori e fatta a pezzi perchè viveva e amava all’«occidentale». 

Camilla Ferro

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