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Prime da collezione

L’assassinio di Aldo Moro: Verona e la notte della Repubblica

di Filippo Brunetto
Il 9 maggio 1978 le Brigate Rosse uccidono il presidente della Dc dopo un sequestro durato 55 giorni. In Bra i cittadini scendono in piazza: lacrime e sdegno. Parla il sindaco Gozzi, la lettera del vescovo Carraro
La prigionia. Aldo Moro fotografato dalle Brigate Rosse durante il sequestro, durato 55 giorni
La prigionia. Aldo Moro fotografato dalle Brigate Rosse durante il sequestro, durato 55 giorni
La prigionia. Aldo Moro fotografato dalle Brigate Rosse durante il sequestro, durato 55 giorni
La prigionia. Aldo Moro fotografato dalle Brigate Rosse durante il sequestro, durato 55 giorni

 La notte della Repubblica. È martedì 9 maggio 1978 quando le Brigate Rosse fanno trovare in via Caetani a Roma, vicino alle sedi della Dc e del Pci, il corpo senza vita di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, 61 anni, che avevano rapito in via Fani il 16 marzo trucidando i cinque uomini della scorta. Moro viene ucciso dopo 55 giorni di prigionia e il Paese piomba in una della pagine più buie della storia repubblicana.

Il 10 maggio L’Arena titola: «Tutta L’Italia insorge unita per l’assassinio di Aldo Moro». «L’hanno ucciso con 11 colpi al cuore». «Il Paese si è fermato per otto ore: massicce manifestazioni nelle città».

Questa pagina è una delle «Prime da collezione», scelte per raccontare la storia di Verona, dell’Italia e del mondo attraverso le cronache del nostro quotidiano.

«Il pianto non basta»

I veronesi reagiscono alla notizia dell’omicidio. La città ricorda lo statista perché nel marzo del 1967, in veste di presidente del Consiglio, aveva inaugurato la Fiera dell’Agricoltura. Dopo il delitto anche a Verona viene dichiarato lo sciopero generale, i lavoratori scendono in piazza Bra e il giorno dopo si riuniscono i Consigli del Comune e della Provincia. La condanna è unanime. Sdegno e commozione.

L’allora direttore de L’Arena, Gilberto Formenti, scrive un editoriale intitolato «Il pianto non basta»: «Era predestinato al Quirinale, ed è morto così, per mano criminale. L’hanno ucciso a freddo, con undici colpi al cuore, poi l’hanno portato nel centro di Roma, a pochi passi da piazza del Gesù, dalle Botteghe Oscure». Formenti cita Giuseppe Saragat: «Ciò che mi fa paura», disse l’ex presidente della Repubblica, «è che accanto al suo cadavere, v’è anche il cadavere della prima Repubblica, che non ha saputo difendere la vita del più generoso uomo politico del nostro Paese».

 

 

 

«C’è più verità nelle poche parole di Saragat che nelle migliaia di discorsi che abbiamo sentito e sentiremo», osserva Formenti: «La prima Repubblica democratica sta dunque assistendo inerte, quasi rassegnata, alla sua soppressione? Certo, mai come in questi tempi, di fronte ad una sfida così temeraria, se n’è avvertita l’impotenza. Il terrorismo criminale; la violenza, che si sostituisce al dialogo democratico; il sangue, che riporta ai tempi più cupi della barbarie... Dove stiamo andando? Questa Repubblica non ha saputo salvare Aldo Moro, e ora lo piange. Di fronte al corpo di Moro non resta alla democrazia italiana che una scelta: sopravvivere, per la difesa della libertà, per il progresso pacifico. Ma ormai devono parlare i fatti: la tragica realtà di via Caetani non consente più né illusioni né rinvii».

«La lezione di Moro»

Il sindaco di Verona, Renato Gozzi (Dc), che nel 1967 incontrò Moro, parla ai cittadini in piazza Bra: «La speranza, fondata nella tradizione di civiltà del nostro popolo, è stata delusa dalla barbarie di pochi. Moro è stato simbolo e maestro e noi della Dc lo abbiamo amato per il suo fermo, limpido, onesto e sincero modo di operare. Se noi ci troviamo oggi, in sede nazionale e anche a Verona, a lavorare superando le contrapposizioni ideologiche lo dobbiamo soprattutto a Moro, che ci ha indicato la via del dialogo. Siamo anche qui per dire che il servizio verso la comunità è un impegno severo, serio, che esige sacrifici; e siamo qui a dire che questa lezione, che è di Moro e della sua parte politica, non va dimenticata. Non solo lacrime e dolore, dunque, ma anche l'impegno a riaffermare il nostro servizio. Non è più tempo di superficialità. Dopo trent’anni, dobbiamo ricostruire queste istituzioni. Dobbiamo interrogarci sul dove e sul come abbiamo sbagliato, sul per ché le istituzioni sono deboli di fronte a pochi dissennati».

Per la federazione provinciale Cgil-Cisl-Uil prende la parola Renzo Fasiolo: «È un attentato fatto alla società civile, alla libertà della dialettica democratica. Si vuol introdurre la violenza fisica, l’assassinio, l’esecuzione spietata come elemento “normale” nel confronto tra forze politiche. È questa logica perversa, questa aberrante visione della società che le organizzazioni sindacali, i lavoratori respingono nel modo più duro e condannano in maniera inappellabile».

Il vescovo, Giuseppe Carraro, scrive invece una missiva da Roma: «Il nuovo atroce episodio è indice di una situazione grave e richiama tutti al fedele e scrupoloso adempimento del dovere inerente al proprio posto. I credenti sono sollecitati anche dalla propria fede a non lasciarsi vincere dallo sbigottimento e dal terrore, a non cedere ad esplosioni sterili di emotività e agitazione, ma a temperarsi nella fede e nella speranza in Dio, vindice giusto di tutte le vittime dell’ingiustizia, dell’odio e della violenza, a rinnovarsi nelle più salde convinzioni di coraggiosa difesa della libertà, della dignità e della vita di ognuno, a operare attivamente nella giustizia, nell’amore e nella pace».

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