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L’Antonov e il nuovo verdetto «Io combatto da 27 anni»

Il fratello Alberto Modesti con la foto della sorella Stefania morta nell’incidente aereo del dicembre 1995 MARCHIORII rottami Ciò che restava dell’Antonov il mattino seguente l’incidente
Il fratello Alberto Modesti con la foto della sorella Stefania morta nell’incidente aereo del dicembre 1995 MARCHIORII rottami Ciò che restava dell’Antonov il mattino seguente l’incidente
Il fratello Alberto Modesti con la foto della sorella Stefania morta nell’incidente aereo del dicembre 1995 MARCHIORII rottami Ciò che restava dell’Antonov il mattino seguente l’incidente
Il fratello Alberto Modesti con la foto della sorella Stefania morta nell’incidente aereo del dicembre 1995 MARCHIORII rottami Ciò che restava dell’Antonov il mattino seguente l’incidente

Come si vive con una ferita che si riapre a ogni nuova sentenza giudiziaria da quasi 27 anni? Dove si trova la forza di tornare in tribunale? Lo si fa per quel sorriso mite spento la sera di Santa Lucia nell’Antonov accartocciato tra i peschi coperti di neve. Il sorriso di Stefania Modesti, una delle 49 vittime del disastro aereo del 13 dicembre 1995, quando il velivolo della Romavia, Banat Air 166 diretto a Timisoara e Bucarest, si schiantò dopo appena 50 secondi di volo poco oltre le piste dell’aeroporto Catullo di Verona. Il peggior disastro aereo dopo quello di Ustica. Cassazione L’altro ieri, come riferito da L’Arena, la Cassazione ha accolto il ricorso di cinque familiari delle vittime contro la sentenza della Corte d’appello di Venezia del 9 dicembre 2016 in cui erano stati quantificati i risarcimenti a carico del Ministero dei trasporti. La Cassazione ha rigettato la decisione dei giudici veneziani della riduzione della quantificazione del danno da cinquantamila a ventimila euro per vittima, e ha accettato il ricorso contro l’utilizzo delle tabelle risarcitorie applicate dalla magistratura lagunare, anziché quelle adottate dal Tribunale di Milano che prevedono importi più elevati. La Cassazione ha rinviato alla Corte d’appello di Venezia la corretta quantificazione del risarcimento attraverso un nuovo giudizio. Un altro, insomma. Dopo 27 anni. Fratelli Ma vanno avanti i fratelli di Stefania, Alberto ed Elena Modesti, due dei cinque ricorrenti (gli altri tre sono i parenti di una famiglia serba). «Stefania sarebbe andata avanti, per capire e arrivare alla verità. Questo è il nostro obiettivo», spiega oggi Alberto, nella sua casa di Borgo Venezia, quartiere in cui sono cresciuti i tre fratelli, nati tra il 1963 e il 1968. «Stefania era la più piccola». Aveva 27 anni. Faceva l’hostess di terra e lavorava per la Business jet di Giuseppe Piona anch’egli sull’aereo. «Si era scambiata la trasferta con la collega, così avrebbe trascorso le vacanze di Natale a casa. Cosa vuole? Una fatalità. Una delle tante attorno a questo incidente», continua Modesti. Catena Ma non tutte furono fatalità: il peso dell’aereo, eccessivo e mal distribuito, l’antigelo sulle ali, le condizioni meteo. Una catena di errori umani portò giù quell’aereo. E le famiglie delle vittime con lui: «La mamma è crollata quella sera stessa e non è stata più lei fino alla morte, nel 2012, a 76 anni. Papà non voleva tornare sull’argomento. Per lui ogni volta era un colpo, si riapriva la ferita. Stava male a entrare in tribunale. Noi siamo andati avanti. Tra avvocati e periti ci spiegarono che non sarebbe stato facile, ma pensavano che la giustizia andasse veloce. Invece non è così. Volevamo che fosse fatta la cosa giusta, ma abbiamo appreso che sarebbe stata dura già dal processo di Verona». I fratelli Modesti hanno conosciuto le tempistiche dei tribunali e quell’unica verità: che anche quando le cose sembrano finite, all’improvviso tutto si ribalta e si ricomincia da capo. Come ora. «Papà lo sapeva che è macchinoso e ci si scontra con un muro di gomma. Molti familiari han finito per lasciar stare». La famiglia Una famiglia legata agli autotrasporti, quella di Nereo Modesti e della moglie Maria Teresa Frapporti. Fu Nereo, quella sera, a tirare su il telefono che squillava: «Ecco, la frittata è fatta», disse. «Io facevo l’autista», racconta Alberto. «Dovevo partire per Torino. Quel pomeriggio avevo salutato Stefania che poi era andata da Francesco Zerbinati (allora suo fidanzato che ha condotto la battaglia per i risarcimenti ai familiari delle vittime, ndr). Non si va a pensare, sapevo che doveva andare in Romania». Al telefono erano amici di famiglia che stavano guardando la tv e avvisavano dell’incidente. «Per le informazioni che già giravano abbiamo capito subito che era l’aereo di Stefania». Da lì fu un turbinio di automatismi: «Andai a prendere mio zio, mentre mio padre fu accompagnato da amici all’aeroporto. Di quella sera ricordo l’agitazione totale e facevo le cose spinto dalla necessità di doverle fare, quasi inconsapevole». Turismo Stefania aveva frequentato una scuola per il turismo e aveva fatto la hostess di terra in Spagna per diverse compagnie. Poi la Business jet. «È un lavoro che ha sempre fatto bene, le piaceva. Era una persona mite. Con mamma e papà faceva quello che doveva fare. Avevamo le camere affiancate. Anche noi tre fratelli andavamo d’accordo perché con lei ti confrontavi, ti ascoltava». Parla Alberto, e ritorna ad accendersi il viso di Stefania, l’allegria che portava in famiglia, il sorriso tra i capelli castani: «È mancata tanto. C’era unione tra di noi. Sapeva trasmettere serenità». Oggi resta questo ricordo, ma anche la rabbia: «La rabbia di sapere come è accaduto, ma anche di vedere come tutto si areni nelle aule di giudizio, ogni volta sembra la conclusione e anche ora si torna di nuovo sugli eventi. Ma abbiamo portato avanti questo fardello». Perché continuare? «Altrimenti ci sembrerebbe di lasciare indietro qualcosa. Non si può cancellare quello che è stato. E non è facile ora tornare a Venezia, per un qualcosa che ci ha condizionato la vita. Ma bisogna andare e fare chiarezza». •.

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