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12 ottobre 1866

Una stanza, quattro giornalisti, i piccioni viaggiatori e un direttore morto a duello: com'è nato il giornale «L'Arena» di Verona

di Emanuele Luciani
La prima pagina del primo numero de L’Arena, il 12 ottobre 1866
La prima pagina del primo numero de L’Arena, il 12 ottobre 1866
La prima pagina del primo numero de L’Arena, il 12 ottobre 1866
La prima pagina del primo numero de L’Arena, il 12 ottobre 1866

Il giornale “L’Arena” viene alla luce il 12 ottobre 1866 per iniziativa di una quindicina di cittadini, desiderosi di incidere nella vita politica approfittando della libertà appena acquisita (il 16 ottobre entrano a Verona le truppe italiane). Liberali, ma moderati ed avversi alle «intemperanze garibaldine», creano una loro associazione, il “Circolo politico”, a cui affiancano “L’Arena”, un organo di stampa destinato a propagandarne le idee.

Fra di loro, sono presenti personaggi, come Angelo Messedaglia, Giulio Camuzzoni, Augusto Caperle, Luigi Arrigossi, che rivestiranno un ruolo importante in vari settori della vita cittadina. Inizialmente, “L’Arena” ed il “Circolo” tendono ad identificarsi persino fisicamente, visto che redazione e sede del Circolo coincidono. In seguito, anche a causa delle travagliate vicende di questa associazione politica, le strade si dividono. Restano invece unite (anche se con qualche parentesi) quelle del giornale e della tipografia in cui viene stampato. Quest’ultima, che si trova in via Sant’Egidio, appartiene ad un imprenditore, Gaetano Franchini, che poi assumerà anche la proprietà de”L’Arena”.

A quel tempo, infatti, la nascita, la vita, la morte o il cambio di proprietà di un giornale avvengono con modalità molto meno complesse di quelle attuali. Nel caso de “L’Arena”, per la redazione ci si accontenta di una stanza al piano terra della tipografia e di quattro giornalisti: due direttori (ma poi uno rinuncerà) e due redattori. Le notizie arrivano per lo più con la posta e talvolta con i piccioni viaggiatori, mentre, per non spendere troppo, si fa un uso limitato del telegrafo (i «dispacci elettrici»).

Il giornale, quattro pagine in tutto, esce nel pomeriggio e viene venduto a 10 centesimi. L’impaginazione, come ha scritto Franco de’ Franceschi, «era estremamente elementare e rispecchiava i limiti delle tecniche tipografiche dell’epoca, basate sulla composizione a mano», tanto che, «lavorando dieci ore di fila, un provetto tipografo poteva mettere insieme 14.000 lettere ossia l’equivalente di una pagina di giornale».

La tiratura si aggira comunque sulle tremila copie, una quantità relativamente notevole (la città conta circa 60.000 abitanti). Con queste premesse, risulta comprensibile il compiacimento con cui nel 1879 il giornale segnala l’entrata in funzione di una macchina da stampa moderna, fatta venire da Parigi, che, si precisa, viene mossa da «forza vapore», assicurando una tiratura di più di 4.000 copie all’ora.

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A stimolare questi progressi tecnici, contribuisce anche la concorrenza, rappresentata soprattutto da un altro quotidiano, “L’Adige”, che inizia le pubblicazioni il 15 ottobre. Dopo alcune oscillazioni iniziali, il ruolo politico dei due giornali si andrà assestando su linee che li caratterizzeranno per lungo tempo, ossia, per dirlo in termini semplici al limite del semplicismo, con “L’Arena” a destra e “L’Adige” a sinistra. Così, oltre alla “guerra commerciale”, li dividerà anche un aspro conflitto ideologico, con scontri non solo dialettici.

Al punto che nel 1904 i rispettivi direttori si sfideranno a duello e quello de “L’Arena”, Antonio Mantovani, morirà in seguito alle ferite riportate.

D’altra parte, per chi lavora nei giornali, l’eventualità di passare dalla penna alla spada è uno dei tanti incerti del mestiere. Mantovani aveva assunto la direzione nel 1901, dopo la prematura scomparsa di Antonio Aymo, morto per malattia, ma non senza aver rischiato la vita in duelli ed in disavventure di vario genere. Ed il predecessore di Aymo, Dario Papa, si era battuto a suo tempo con Felice Cavallotti, un politico di grande rilievo, destinato, sia detto per inciso, a perdere la vita proprio incrociando la spada con un giornalista.

Gli altri direttori de ”L’Arena” del periodo che va dalla fondazione ai primi del Novecento, ossia Alessandro Pandian e Ruggero Giannelli, non sono da meno. Pandian si limita in verità a menare fendenti metaforici, ma in misura tale da spingere la proprietà a sostituirlo. Giannelli, invece, non si accontenta di una serie infinita di querele e di controquerele (sempre a causa delle polemiche con “L’Adige”), ma viene anche coinvolto in una rissa e in un duello alla sciabola. Non meraviglia perciò che «il Giannelli furioso» (come lo definisce in una brillante biografia Claudio Gallo) finisca a sua volta per trovarsi in contrasto con la proprietà.

Ma la propensione di questi primi direttori ad un’esistenza avventurosa, piena di incerti (Pandian finirà i suoi giorni in un “Ricovero di mendicità”) e di polemiche violente, si accompagna a notevoli capacità professionali e gli esempi più significativi sono quelli di Dario Papa e di Antonio Aymo. Papa, un ex garibaldino, è un innovatore destinato ad un grande avvenire. Con lui, “L’Arena” si trasforma sia nella grafica che nei contenuti: esce al mattino ed al pomeriggio, dimezza il prezzo, dà ampio spazio alla cronaca e pubblica romanzi d’appendice. Riesce così a centrare due obiettivi che di solito risultano difficilmente coniugabili: l’incremento delle vendite e del prestigio.

Aymo, che per un periodo sarà anche proprietario del giornale (i cambi di proprietà a “L’Arena” sono una storia nella storia), è un piemontese arrivato a Verona dopo esperienze a dir poco romanzesche (aveva tentato anche di fondare un giornale in Messico). Schierato a destra, si fa ammirare per le doti di polemista, amato dai suoi lettori e detestato dagli avversari, che però gli riconoscono coerenza e lealtà. “Il giornalista galantuomo” è, non a caso, il titolo di un bel libro di Giovanni Masciola che ne ripercorre le vicende.

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