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VERONA RACCONTA

Dal Corobbo, il don Quattro Lauree: «Virgilio, Verdi, la Callas. Conquisto con il bello i "talenti" di don Mazza»

Nato 56 anni fa a Thiene e cresciuto sui monti a Caltrano, al confine con l'altopiano di Asiago, abita da 32 anni a Verona. Da 25 è preside dell'Istituto Don Mazza
Don Fabio Dal Corobbo, 56 anni, da 25 preside dell'Istituto Don Mazza, dove insegna greco e latino
Don Fabio Dal Corobbo, 56 anni, da 25 preside dell'Istituto Don Mazza, dove insegna greco e latino
Don Fabio Dal Corobbo, 56 anni, da 25 preside dell'Istituto Don Mazza, dove insegna greco e latino
Don Fabio Dal Corobbo, 56 anni, da 25 preside dell'Istituto Don Mazza, dove insegna greco e latino

Il cognome Dal Corobbo viene dal sostantivo carrobbio, che significa crocicchio. Nel caso di Fabio Dal Corobbo, tre lauree (lettere, storia e tutela dei beni culturali, teologia), tutte coronate da un 110 e lode, e una quarta (psicologia) in arrivo, è più corretto riferirsi al quadrivium, perché questo prete, studioso, letterato e docente è un crocevia in cui s'intersecano le quattro strade della classicità: latino, greco, musica, scrittura.

Nel mezzo del rondò, al posto dell'aiuola spartitraffico, c'è un pozzo (di scienza): lui. Si definisce timido, in realtà ti trapassa con due occhi laser e un'espansività avvolgente.

Nato 56 anni fa a Thiene e cresciuto sui monti a Caltrano, al confine con l'altopiano di Asiago, abita da 32 anni a Verona, ma qui lo conoscono quasi solo i 200 allievi dei licei classico e scientifico Don Mazza, e i 130 che frequentano la scuola media, oggi diventati qualche migliaio perché da un quarto di secolo, cioè da quando fu ordinato sacerdote, è preside e insegnante dell'istituto fondato nel 1833 da don Nicola Mazza «per formare i ragazzi poveri e intelligenti».

«Attenzione: e, non ma», rimarca il sacerdote, visto che a quei tempi, complice la pellagra, la miseria veniva fatta coincidere con l'ottusità.

Dal Corobbo è tanto capace d'insegnare il greco biblico ai futuri preti nello Studio teologico San Zeno quanto di dare alle stampe con la casa editrice Mazziana, come ha fatto lo scorso settembre, Callas 100, dedicato alla Divina, passata ai raggi X per «La voce, la scena, il repertorio», così promette il sottotitolo, un tomo di 896 pagine, quasi 2 chili di peso, oltre 2,5 milioni di caratteri: con un altro milione sarebbe arrivato alla lunghezza della Bibbia.

A dicembre era di nuovo in libreria con Ildegarda medico. Cura di sé, degli altri, della natura, 404 pagine su Hildegard von Bingen, la mistica tedesca vissuta fra XI e XII secolo, celebre per le visioni, le profezie e gli interessi scientifici che spaziavano dalla medicina alla cosmologia. Ma almeno stavolta s'è fatto aiutare da due coautori: Bruno Brigo, ex primario della Riabilitazione al Policlinico, esperto di omeopatia, fitoterapia, oligoterapia, e il figlio Francesco, neurologo all'ospedale di Merano, specialista nella cura dell'epilessia.

«Francesco fu mio allievo. Ero suo insegnante di religione, ma anche suo regista: lo feci recitare nell'Edipo re di Sofocle e nel Macbeth di Shakespeare».

Quindi si occupa pure di medicina e di teatro, praticamente dell'intero scibile umano.

Ho avuto fortuna. Mio padre Giambattista è stato per tutta la vita docente di lettere alla scuola media di Caltrano. In casa avevo a disposizione la sua biblioteca. Mia madre Lucilla, morta nel 2018, era invece istruttrice di scuola guida. Conquistò papà facendogli prendere la patente.

La sua prima lettura?

Da ragazzo? Le Lettere morali a Lucilio di Seneca.

Tex neanche a parlarne, eh.

Leggevo anche quello e Topolino, i quotidiani, Famiglia Cristiana. Il liceo classico Corradini a Thiene fece il resto.

Titolo della prima tesi?

Per la lettura di Lussorio. Vinse il premio Cevolani e fu pubblicata a Bologna da Patron.

Lussorio? Sono impreparato.

Poeta vissuto a Cartagine alla fine del regno dei vandali. La tesi mi fu suggerita dal mio maestro Giorgio Bernardi Perini, che insegnava letteratura latina all'Università di Padova.

La seconda laurea fu su Giuseppe Verdi. È un melomane?

Certo. Da uomo di teatro, Verdi si accorse con il Va' pensiero che il Risorgimento poteva favorire la diffusione dei suoi melodrammi. Chiese al librettista di cambiare il finale di Ernani, mettendo in scena la morte dell'eroe patriota.

La melomania come arrivò?

Già a 5 anni prendevo lezioni di solfeggio da un prozio, Attilio Dal Santo. So suonare pianoforte e clarinetto. Ascolto qualsiasi tipo di musica: classica, lirica, sinfonica, jazz, pop.

Un latinista pop. Inaudito.

Ho seguito anche il Festival di Sanremo. Solo due serate, la terza non riesco a reggerla.

Nel jazz chi la affascina?

Simona Molinari, come autrice e anche come interprete.

Il suo idolo nella lirica chi è?

Gioachino Rossini, il Giove dei compositori. Per 20 anni sono andato al Rossini opera festival di Pesaro.

E stravede per Maria Callas.

La seconda laurea l'ho conseguita discutendo la tesi «Ebben? Ne andrò lontana», con relatrice Adriana Guarnieri.

È il titolo di una romanza da La Wally di Alfredo Catalani.

Un cavallo di battaglia del soprano. Callas non cantò mai tutta l'opera, incise solo quel brano in un album negli anni Cinquanta. Quasi una profezia della sua vita: greca, nata a New York da una famiglia disfunzionale, il padre che si separa dalla madre, le donne che rientrano ad Atene e vivono come possono. Poi Maria torna in America e incontra il tenore veronese Giovanni Zenatello, che sta cercando una sostituta di Herva Nelli per La Gioconda del 1947 in Arena.

Herva Nelli non andava bene?

Costava troppo. L'inventore della stagione lirica areniana concesse a Callas un'audizione privata. Ne fu stregato. A italianizzarne la voce furono poi i maestri Tullio Serafin e Ferruccio Cusinati, che erano al fianco di Zenatello in quella sera del 1913 quando lanciò il primo acuto nell'anfiteatro romano per saggiarne l'acustica.

Che cosa prova nell'ascoltare Ebben? Ne andrò lontana?

Resto colpito dalla perfezione nell'intonazione dei suoni.

Avrei giurato che le piaceva cantata da Renata Tebaldi.

Come può non piacere? Stanno alla pari. La Wally è feudo sicuro, impenetrabile, di Tebaldi, interprete ineguagliata del repertorio lirico puro.

Aria pucciniana, non trova?

Sì. Giacomo Puccini ha rubato a tutti, a cominciare da Verdi.

Wally viene cacciata di casa dal padre. Può mai esserci un motivo per cui un genitore allontana da sé un figlio?

Non può accadere, verrebbe da dire. Invece dalla mia esperienza con le famiglie so che accade. Esclusioni provocate dalla tossicodipendenza, vissute più come una resa, spesso seguite dalla riconciliazione.

E quando i genitori scoprono che i figli sono omosessuali?

Lì c'è l'apprensione. Soffrono gli uni e gli altri. I genitori perché pensano che quella dei figli sarà una vita dura, i figli per il disagio di dover confidare la loro vera natura ai genitori. Ma come fa un padre o una madre a non amare più un figlio?

Confessa i suoi allievi?

Mai. Si sentono liberi di raccontarmi cose molto personali, ma non c'ingolfiamo a vicenda con il sigillo sacramentale. Se qualcuno mi chiede un consiglio, lo indirizzo altrove. È anche per questo che voglio laurearmi in psicologia. Sono al terzo anno, frequento l'università di pomeriggio, dopo le mie lezioni di latino e greco al liceo, 17 ore settimanali.

«Là dove la speranza, la speranza / è rimpianto, è rimpianto, è dolor!», canta la Wally. Lei in che cosa spera?

Nella pace, e non solo quella eterna. Voglio crederci anche se sembra un'utopia. Prego ogni giorno perché gli uomini e le donne capiscano che ogni forma di odio, di violenza, di guerra è follia, sconfitta, desolazione. Mi ostino a credere che la pace sia possibile. La fede pasquale mi aiuta. Non dispero mai, neppure quando vengo a conoscenza di qualche nostro allievo che fuma gli spinelli, si tagliuzza le braccia e le gambe o cade in preda all'anoressia. Sa, capita anche qui, non siamo un'oasi felice.

Il suo più grande rimpianto qual è?

Non essere tenore?(Ride). Sarebbe scandaloso se le dicessi che rifarei tutto quello che ho fatto fino a oggi?

No davvero.

Compresa la scelta di essere consacrato nella Pia società Don Mazza. Lo considero un regalo bello della vita.

Il dolore più lancinante?

Non aver saputo dire a persone che adesso non sono più qui, per esempio a mia mamma, tutto il bene che ho voluto loro e che continuo a volergli.

Quando avvertì la vocazione?

Al terzo anno di università a Padova. Mi accorsi che i risultati felici ottenuti dagli altri studenti producevano su di me gli stessi effetti di quelli miei. Allora cominciai a rifletterci. Mi dissi: piangere con chi piange è facile, se si è minimamente umani, ma gioire del bene altrui come del proprio non è così scontato.

Perché scelse proprio la Pia società Don Mazza?

Ho frequentato il collegio universitario di Padova che porta il suo nome. Lì ho conosciuto il veronese don Luigi Pretto, grande prete, grande dantista.

A 96 anni mi confessò che un tempo piangeva nel leggere in classe la Divina Commedia.

A me capita di commuovermi quando spiego la prima delle Bucoliche di Virgilio.

Che dote aveva don Mazza?

Era moderno. Nell'Ottocento aprì l'istituto «dei talenti perduti», così li chiamava. Diceva: dovrebbe essere la società a occuparsene, ma, siccome non lo fa, ci penso io, e loro, i ragazzi, «mi corrisponderanno nell'ottimo».

Un inguaribile ottimista.

Dagli allievi pretendeva l'ottimo in tutte le discipline. Un principio pedagogico che abbiamo dovuto adattare ai tempi presenti. Oggi ci accontentiamo che facciano del loro meglio. Don Mazza, che è sepolto qui, nella cripta della chiesa di San Carlo, continua a vegliare sulla sua scuola.

Resta gratuita per i meno abbienti meritevoli?

Sì, alle rette di un quarto degli allievi provvedono i benefattori. Gli altri tre quarti hanno rette a scalare, sulla base del reddito familiare.

Rette non popolari, suppongo.

Sono 3.600 euro l'anno per la scuola media e 3.800 per i licei. Dallo Stato non riceviamo nulla, al massimo ci finanzia qualche singolo progetto. Eppure un liceale costa alla scuola pubblica 7.000 euro l'anno.

Che differenza riscontra fra gli studenti del suo tempo e quelli di oggi?

La nostra era una cultura cartacea. Ora sono sommersi da un'enorme quantità di stimoli multimediali. Credo che siano sinceri quando mi dicono: «Prof, non abbiamo tempo».

Come riesce a farli innamorare dei classici latini e greci?

Se gli parli delle pagine che ami, qualcosa passa. Ho chiesto a una studentessa: ma tu percepisci la bellezza di ciò che ho letto? Mi ha risposto: «Non ancora, ma, vedendo il suo entusiasmo, penso che sia proprio bello». È un contagio che si trasmette con la passione. Non faccio mai discorsi moralistici, non gli dico che studiamo latino e greco perché sono utili, ma perché sono tremendamente belli.

Crea un'empatia.

È la parola giusta. Negli anni dell'università a Padova interruppi l'amicizia con una persona che mi comunicava un'immagine troppo negativa della vita. Fu triste. Ma esiste anche la carità verso sé stessi.

È sicuro che latino e greco dicano ancora qualcosa ai giovani del nostro tempo?

Sì, poiché sono di un'attualità sconcertante. Pensi solo alle riflessioni del mio amato Seneca sull'uso consapevole del tempo, «quel dono che neppure la persona più grata ti può restituire», scrive a Lucilio. Leggerlo non è come partecipare agli esercizi spirituali?

Di che cosa hanno più bisogno i giovani?

Di ascolto. Non basta volergli bene. Bisogna anche volere il loro bene.

Ma le sembrano ancora interessati a Dio?

Tantissimo. Dietro certe dichiarazioni di ateismo, c'è solo la paura di dispiacere alla maggioranza. L'opinione dei più fa la regola, dicevano gli antichi. Ma poi, quando depongono il pudore, scopri che sono alla ricerca dell'Eterno.

Stefano Lorenzetto

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