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Ospedale della Donna e del Bambino

Citrobacter, l'esperto: «Non bisogna aver paura di chiudere fino a quando si scoprono le cause»

di Camilla Ferro
Saverio Parisi, ordinario di Malattie Infettive a Padova: «Si deve capire se davvero c’è stato un intervallo libero di quattro anni»
La struttura a Borgo Trento che ospita il Dipartimento Materno-Infantile con la Terapia Intensiva Neonatale e il professore Saverio Parisi
La struttura a Borgo Trento che ospita il Dipartimento Materno-Infantile con la Terapia Intensiva Neonatale e il professore Saverio Parisi
La struttura a Borgo Trento che ospita il Dipartimento Materno-Infantile con la Terapia Intensiva Neonatale e il professore Saverio Parisi
La struttura a Borgo Trento che ospita il Dipartimento Materno-Infantile con la Terapia Intensiva Neonatale e il professore Saverio Parisi

«È un grosso problema».

Possibile non si riesca a debellare ’sto Citrobacter, professore?
È complicato e servono misure drastiche. In generale, astraendo dal caso specifico di Verona, da tecnico dico solo che avere il Citrobacter in un reparto blindato come una terapia Intensiva Neonatale è un guaio serio. Se poi, addirittura, è un ritorno, un dejavu, indipendentemente dal ceppo uguale o no, per chi è del mestiere significa il patatrac: arriva l’infezione, questa come altre, che ti sconvolge processi fino a quel momento andati benissimo, arriva “la“ complicazione che annulla tutti gli sforzi, l’impegno, i soldi investiti e che ti mette seriamente in difficoltà».


Saverio Parisi è professore ordinario di Malattie Infettive all’Università di Medicina di Padova. Tra il 1995 e il 2004 è stato virologo all’Azienda Ospedaliera di Verona. In passato ha avuto diversi incarichi di ricerca nell’Istituto Superiore di Sanità, laboratorio di virologia. Ha fatto e pubblicato studi sulle infezioni nosocomiali, di cui oggi è uno dei massimi esperti in Italia. Di Citrobacter e affini ne sa. E non nasconde preoccupazione.

Sembra che stavolta, all’Ospedale della Donna e del Bambino, sia tutto sotto controllo: i tre bimbi colonizzati stanno bene e la direzione garantisce che le misure straordinarie di sorveglianza abbiano funzionato.
Bene. Perché 4 anni fa la risposta fu insopportabilmente lunga e le conseguenze di tutt’altro tenore. Il Citrobacter è un germe di per sé non allarmante ma lo diventa quando colonizza le aree critiche di un ospedale: per esempio la cardiochirurgia, i trapianti, i reparti con gli immunodepressi come la rianimazione neonatale. La Tin ospita prematuri, più o meno gravi, cioè soggetti particolarmente fragili su cui anche il più banale dei batteri fa danni enormi. È un’area che deve essere assolutamente pulita: nessun microrganismo patogeno deve arrivare nelle culle. E se ci arriva significa che qualcuno o qualcosa ce l’ha portato, perché i neonati non camminano.

I nuovi tre casi di colonizzazione, secondo lei, da cosa dipendono?
Tre casi insieme, all’improvviso, dopo che la sorveglianza in questi anni non ha più registrato problemi, impongono diverse riflessioni e domande. La prima: c’è stato davvero un intervallo libero da Citrobacter, dal 2020 ad oggi? La seconda: tre positivi sono la conferma che il batterio circola e questo, al di là dell’indagine genomica che definirà il tipo, è il “grosso problema“ con cui ho iniziato quest’intervista. Sarebbe poi opportuno sapere se si sono contagiati tutti insieme, contemporaneamente, se erano vicini, se condividevano lo staff. Terza: se emergerà che c’è stretta correlazione con quello di 4 anni fa, dov’è stato in tutto questo periodo? Quarto: se invece è un batterio nuovo, da dove viene? Quinto: in costanza di colonizzazione, la Tin non deve funzionare; che la presenza del germe sia collegata alle persone, agli strumenti o alla struttura, lì i prematuri non ci possono stare. Il reparto è contaminato e qualcuno o qualcosa lo contamina, non c’è dubbio. 

Se fosse lo stesso ceppo del 2018-2020? 
Se fosse, significa che la sorgente è nell’ambiente, penso nella rete idrica dove fu scoperto l’altra volta perché le apparecchiature le avranno di sicuro bonificate e sostituite e il personale, altro veicolo di contagio, sarà sicuramente sottoposto a protocolli molto rigidi. Non penso possibile la via di diffusione madre-figlio, perché i casi sono troppi. Se invece il ceppo fosse diverso, bisognerà allora chiedersi perché vari tipi di Citrobacter affliggano lo stesso reparto. Il risultato comunque non cambia.

Qual è, secondo lei, la cosa da fare?
Riguardare da zero tutto, riconsiderare ogni opzione non avendo paura di sospendere l’attività finché non si trova la causa e la si debella, smantellando gli impianti. Bisogna avere il coraggio, e lo dico da virologo che, ripeto, analizza la vicenda super partes, di trovare la soluzione a costo di fare un reparto nuovo da un’altra parte, senza temere l’impopolarità. Perché dire che va tutto bene e prevedere a breve un ritorno alla normalità, nel caso poi si verificassero altri casi di Citrobacter così come è successo ora, significherebbe due cose: che non si è cercata la verità e che, forse, gli addetti ai lavori non ci hanno capito niente. Scoprire dov’è aiuta a fermare il meccanismo di contaminazione. E potenziali altre tragedie. 

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