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il caso

La perizia: «Citrobacter, con il Covid interrotta la sorveglianza»

di Fabiana Marcolini
Nel mirino dei periti i sei mesi di inizio pandemia in cui sarebbe stato sospeso lo screening: «Una bimba si poteva salvare»
La vicenda Gli articoli de L’Arena sui casi di bambini colpiti dal Citrobacter a Borgo Trento
La vicenda Gli articoli de L’Arena sui casi di bambini colpiti dal Citrobacter a Borgo Trento
La vicenda Gli articoli de L’Arena sui casi di bambini colpiti dal Citrobacter a Borgo Trento
La vicenda Gli articoli de L’Arena sui casi di bambini colpiti dal Citrobacter a Borgo Trento

Diciannove mesi tra la prima vittima, Elizabeth, e l’ultimo bimbo contagiato, Davide, ovvero il periodo che va dal novembre 2018 al 14 maggio 2020 ma quanto meno negli ultimi mesi, nella cosiddetta «fase tardiva», se alcune procedure fossero state ripetute, la morte di una bimba e le lesioni per un’altra neonata si sarebbero potute evitare.

È quanto emerge dalle conclusioni della perizia redatta dai quattro esperti nominati dal pm Maria Diletta Schiaffino, il professor Ernesto D’Aloja, i medici Fernando Coghe, Daniele Farina e Clemente Ponzetti, che in oltre 400 pagine ripercorrono e ricostruiscono quel che accadde nel reparto di Terapia intensiva neonatale dell’ospedale della Donna e del Bambino. Quei piccoli fragili che contrassero l’infezione da batterio killer, il Citrobacter, responsabile di decessi e di lesioni gravissime.

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Diciannove mesi suddivisi in tre fasi e in quella tra la fine di febbraio e la fine di maggio 2020, in piena pandemia Covid, le criticità già emerse in precedenza non vennero tenute in considerazione. In sostanza sarebbe stata «doverosa la riattivazione di una sorveglianza attiva e tutte le altre procedure di contenimento/gestione del rischio infettivo». In tal caso il contenimento avrebbe avuto effetto ai primi di aprile concludono che, «se tale ragionamento corrispondesse al vero, i casi di contagio di aprile, maggio e giugno non si sarebbero verificati e quindi si sarebbe potuto evitare la morte della piccola Alice C. e le lesioni riportate da Benedetta mentre Maria e Davide non sarebbero stati colonizzati».

Tre fasi

Per quanto riguarda la prima, la cosiddetta «precoce» in cui rientrano il decesso di Elizabeth, Nina e Jacopo (che contrasse però l’infezione a San Bonifacio) gli esperti affermano che «nessun sospetto né clinico né microbiologico né epidemiologico poteva e doveva essere sollevato dai sanitari che ebbero in cura i piccoli». In circa un anno vi furono 19 isolamenti con «andamento limitato e irregolare».

«Quando si accende il ”focus” sulla infezione da CK a seguito dell’audit mediatico», si legge nell’elaborato, «la valutazione retrospettiva identifica solo un caso», un evento sporadico non correlato allo «scoppio» di infezione in ospedale. E per gli esperti non vi era uno screening microbiologico perché «non necessario».

Dopo tale periodo nel 2019, in novembre, si presenta il caso di Leonardo, neonato con una meningoencefalite e infezione da CK anche nel sangue. Da qui un mini focolaio che coinvolge altri tre bimbi Alice M. Delia e Alice C. «È il primo momento in cui vi è una concentrazione sia temporale (8 giorni) sia spaziale (3 in Terapia intensiva) che doveva rappresentare una red flag meritevole di approfondimento da parte del Cio (Comitato infezioni ospedaliere)».

Prime misure di contenimento

Passano due settimane tra le prime avvisaglie e l’analisi del fenomeno per cui vengono adottate le prime misure di contenimento.  Dal 14 gennaio 2020 vengono attuati i protocolli dettati dal sospetto di una trasmissione orizzontale dell’infezione, ovvero l’isolamento da contatto dei pazienti colonizzati piuttosto che la rivalutazione delle misure da contatto e delle norme per il lavaggio delle mani, l’azione di rinforzo nei genitori della conoscenza ed applicazione delle norme di prevenzione, la sorveglianza di tutti i pazienti e il monitoraggio ambientale.

«Le azioni promosse dal Cio presentano le direttrici richieste in caso di epidemia», ovvero «il contenimento della circolazione del microorganismo, l’eliminazione di potenziali fonti di contagio, monitoraggio e ricondizionamento ambientale». In febbraio vengono chiesti test specifici e di estendere l’indagine per individuare la sorgente ambientale del contagio che «rimaneva ignota nonostante i 79 campionamenti effettuati in gennaio su diverse superfici», dalle termo culle ai lettini, dalle isole neonatali agli scalda-biberon.

In questa fase, per i periti, le misure avevano limitato parzialmente la circolazione e inciso in maniera sostanziale sulla diffusione della ”epidemia” poiché si passa da 7 neonati CK positivi a uno in una settimana. «Il fenomeno era ancora attivo ma nella fase tardiva (22 febbraio-30 maggio) non vi sono riunioni del Cio, non vi è alcuna sorveglianza attiva essendo stato interrotto lo screening settimanale sui piccoli pazienti e viene sospeso il monitoraggio ambientale». In quel periodo l’Italia si è fermata ma non l’infezione: «se al momento della ricomparsa della red flag fosse stata convocata la Commissione ospedaliera è ipotizzabile che avrebbe attuato quello che fece dal 6 maggio in poi con ”effetto di contenimento” in poco più di sei settimane». Non si verificò.•.

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