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La storia della Casnici di via Leoni

La caccia grossa, i nobili, il cardinale. Chiude l’armeria più antica d’Europa

di Silvino Gonzato
Guido Sacchetti, l’ultimo della dinastia, si arrende alla burocrazia. Tra i clienti il vescovo Canossa e il conte Miniscalchi-Erizzo
Guido Sacchetti nell'armeria di via Leoni (foto Marchiori)
Guido Sacchetti nell'armeria di via Leoni (foto Marchiori)
Guido Sacchetti nell'armeria di via Leoni (foto Marchiori)
Guido Sacchetti nell'armeria di via Leoni (foto Marchiori)

Sta per chiudere l’armeria più antica d’Europa. Per molto tempo e fino a quindici anni fa chi vi passava davanti, in via Leoni 4, veniva attratto dalle due zanne di elefante esposte in vetrina, in piedi e con le punte arcuate che si toccavano. La vetrina era una finestra sull’Africa, su uno degli aspetti più crudeli dell’Africa ma che era stata l’Africa del conte Miniscalchi-Erizzo e di altri nobili veronesi che vi andavano a cacciare in un’epoca in cui farsi fotografare col calcio del fucile posato sulla carcassa di un leone o di un bufalo appena uccisi erano indice di ardimento e garanzia di ulteriore prestigio. Ed era stata anche l’Africa di Hemingway della «Breve vita felice di Francis Macomber» e di altri memorabili racconti dello scrittore americano.

Gli esterni dell'armeria di via Leoni (foto Marchiori)
Gli esterni dell'armeria di via Leoni (foto Marchiori)

 

L’ultimo della dinastia

Il proprietario del negozio, Guido Sacchetti, l’ultimo di una dinastia di armaioli, chiude non perché gli sia venuta meno la passione per il proprio lavoro o perché abbia superato l’età della pensione. I ricordi legati al padre e al nonno, al padre cacciatore nelle savane del Kenya, del Tanganica e dell’Uganda, e al nonno che aveva rilevato l’armeria dal primo proprietario Giovanni Casnici che l’aveva aperta nel 1860 quando le birrerie di Verona erano ancora affollate di soldati di Cecco Beppe, lo avrebbero trattenuto dietro il severo bancone ancora per qualche anno.

Chiude perché, come lamenta, la vita dell’armaiolo è tormentata dalla burocrazia, da regolamenti che vanno bene oggi e non vanno più bene domani, dalla paura di finire nei guai da un momento all’altro per una disposizione, piombata all’improvviso, di diversa interpretazione da una città all’altra.

L’arcigno negozio, che si sviluppa più in lunghezza che in larghezza, si sta svuotando. Non ci sono più armi ma ricambi e accessori. Appesi alla parete di destra, sotto un alto soffitto, incombono i trofei di caccia, un’enorme testa di bufalo cafro, altre teste di antilope alcina, una testa di kudu dalle lunghe corna ondulate. Sulla parete dietro il bancone sono appese le foto incorniciate del padre col casco coloniale, fucile al piede e stivale sulla preda. Le rastrelliere per i fucili, i banconi, le cassettiere e il pavimento di piastrelle a composizione floreale sono degli anni ’20, acquistati dopo il trasferimento. Nella stanza-deposito che si apre in fondo al locale ci sono altre foto di safari e quella del nonno Augusto.

Il fondatore e il cardinale Giovanni Casnici, il fondatore della ditta, dopo cinquant’anni a costruire e a vendere armi in vicolo San Sebastiano 5 aveva trovato il suo appassionato successore in Augusto, probabilmente un suo dipendente, che mantenne il nome sull’insegna anche dopo il trasferimento in via Leoni. Uno dei clienti più celebri dell’armeria di vicolo San Sebastiano era il cardinal Canossa, vescovo di Verona dal 1862 al 1900. Coltivava la passione della sua nobile famiglia, la caccia. Un altro era il conte Francesco Miniscalchi-Erizzo, vice presidente della Società Geografica, presidente dell’Accademia di agricoltura, scienze e lettere nonché senatore del Regno. Felice Schleiber, “sportman” milanese marito della giovane contessa Ernestina Pullè e definito con troppo ardore da Henry Stanley «il solo italiano che tiene viva in Africa la fama di ardito cacciatore», prima di partire per far strage di leoni si riforniva di munizioni alla ditta Casnici e Comp.

 

L’esploratore

La mattina del 9 agosto del 1887 il piemontese Giacomo Bove, esploratore artico della spedizione della Vega al comando dello svedese Nordenskiöld, si presentò con in testa un panama all’armeria di vicolo San Sebastiano. Chiese un moschetto da cavalleria, scrive Emilio Salgari allora cronista del nostro giornale. «Per il tiro a segno» disse. L’armaiolo, che non lo riconobbe, rispose che non l’aveva ma che di fucili teneva il Vetterli. «No, il Vetterli non va bene, è troppo lungo» disse Bove che allora chiese di vedere dei revolver. Ne scelse uno di grosso calibro. «Ottima scelta, signore - si congratulò l’armaiolo - quest’arma ammazzerebbe un bove». «Un bove, appunto» disse Bove. Poche ore dopo l’esploratore si sparò alla tempia destra sotto un gelso di Porto San Pancrazio. «Soffro di una nevrosi incurabile» aveva scritto in una delle lettere che gli furono trovate in tasca.

 

Caccia grossa

Augusto Sacchetti morì presto e lasciò l’armeria al figlio Franco appena sedicenne che dopo alcuni anni chiuse la fabbrica e tenne solo il negozio. Oltre a vendere armi, Franco Sacchetti le usava e le sapeva usare. Andava in Africa a caccia grossa col conte Cesare d’Acquarone che nel 1968, quando aveva 44 anni, venne ucciso misteriosamente ad Acapulco, in Messico, con cinque colpi di pistola dalla suocera Sofia Bassi Celorio.

Franco e il conte partivano con 36 armi tra fucili e pistole, un intero arsenale. Il conte si era fatto costruire appositamente una doppietta belga calibro 460 Weatherby magnum che con un solo colpo avrebbe ammazzato un elefante. Il conte e Franco imbracciavano poi, e si scambiavano, un Francotte in calibro 375 Winchester magnum e un altro in calibro 458, fucili il cui tuono faceva tremare le verdi colline d’Africa. I due cacciatori si spostavano di savana in savana con un piccolo aereo e i trofei andavano in parte a ornare le pareti di Villa Musella a San Martino Buonalbergo e del castello di San Candido.

Franco morì nel 1972 quando aveva 50 anni e gli subentrò il figlio Guido che aveva appena finito il liceo.

Franco Sacchetti, padre di Guido, a caccia con il conte Cesare Acquarone
Franco Sacchetti, padre di Guido, a caccia con il conte Cesare Acquarone

 

Una storia in soffitta

E adesso una lunga storia intessuta di tante storie e che, se approfondita ben oltre lo spazio che consente una pagina di giornale, darebbe un quadro appassionante della società veronese dalla metà dell‘800 in poi lasciando fuori gli aridi tempi di oggi, va in soffitta come tante altre legate ad antichi negozi di cui è rimasta, in qualche caso, soltanto la storica insegna a indicare che lì sì vendeva tutt’altro da quello che si vende oggi.

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