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IL processo per femminicidio

«La mamma è volata in cielo», in aula il dramma del figlio di Carol Maltesi

Al tribunale di Busto Arsizio hanno testimoniato i nonni del piccolo, residenti nella Bassa veronese: prima del ritrovamento del cadavere era Fontana che rispondeva via sms al piccolo, spacciandosi per la madre

Carol Maltesi è stata uccisa a colpi di martello sulla testa l’undici gennaio scorso nella sua casa di Rescaldina nel Milanese. Fino a quattro giorni prima in quella villetta, era presente anche il figlio di sei anni. Era andato lì a trascorrere la settimana delle vacanze natalizie.
Poi, più nulla. Solo il buio per quel bimbo che non ha più ricevuto le attenzioni di Carol, vivendo immerso nei tanti «non so» di nonni e papà, durati più di due mesi. Fino a quando il 19 marzo non sono stati scoperti i resti di Carol, buttati in quattro sacchi d’immondizia in un bosco a Borno nel Bresciano dal suo omicida. E allora i tanti «non so» di chi gli stava vicino si sono trasformati nella «mamma che è volata in cielo». Uno strazio.

Il racconto dei nonni del bimbo, residenti nel Veronese

Sono stati prima i nonni, residenti nella Bassa Veronese e assistiti da Veronica Villani e Anna Maria Rago, e poi la psicologa Giusy Lamarca, incaricata dal padre a seguire il piccolo, a spiegare ieri in aula davanti alla Corte d’Assise a Busto Arsizio il dramma quotidiano di un piccolo che a soli sei anni ha perso ciò che aveva di più caro al mondo. L’hanno fatto davanti al banchiere milanese Davide Fontana, 43 anni, seduto sul banco degli imputati con l’accusa di aver ucciso la sua ex compagna. Rischia l’ergastolo.

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La procura di Busto Arsizio lo accusa di aver anche premeditato l’omicidio e di averlo fatto per futili motivi. Quali sono? La ventiseienne voleva andarsene dal Milanese e vivere un’altra storia d’amore lontana da Fontana con il quale aveva avuto una breve relazione poco tempo prima di essere uccisa.

Il terribile trauma vissuto dal piccolo

Ieri hanno iniziato i genitori dell’ex compagno veronese di Carol a raccontare il percorso tutto in salita del nipote. Hanno spiegato il «contorcimento» mentale del piccolo che non si capacitava della sparizione della mamma da un giorno all’altro. Gli arrivavano solo messaggi che erano scritti da Fontana, impossessatosi del telefonino di Carol, carpendole con l’inganno il numero del pin. Era lui che rispondeva al piccolo, spacciandosi per la madre. Era lui che lo imbrogliava dicendo che Carol si trovava a Dubai. E che lì non c’era connessione. E così non poteva fargli le video chiamate che gli faceva tutti i giorni. E il bimbo non poteva capire tutto questo silenzio.

Così come non capivano i nonni e l’ex compagno in quei due mesi di messaggi scritti via whatsapp. E più il piccolo non capiva, più il trauma si faceva spazio nella sua mente. Fino a quando non hanno scoperto i resti dellla madre. E allora, lì l’incubo dell’abbandono per il bimbo è diventata una realtà. Lui si difende, ha spiegato la psicologa in aula, anche con l’ipervigilanza. Controlla tutti gli spostamenti dei suoi punti di riferimento, papà e nonni.

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La reazione di Fontana a questi racconti? Non ha mostrato alcun cedimento quando è stato chiamato ieri a testimoniare in aula. Ha tentato di allontanare da sè l’aggravante della premeditazione. Ha detto che il martello l’aveva portato su richiesta di Carol per fare un video estremo.

E quando il giudice gli ha chiesto come fa a provare la richiesta della ventiseienne, lui ha replicato che c’era un vocale a confermarlo. Peccato che tutti quei messaggi sono stati cancellati dal cellulare della vittima. Poi alla fine, si è scusato come aveva già fatto nella prima udienza. «Morirei pur di riportare in vita Carol», ha concluso, «farò di tutto per riparare il danno». Si ritorna in aula lunedì. La sentenza è prevista a metà gennaio.

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Giampaolo Chavan

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