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Lo storico Maccagnan fa luce sui tragici fatti dell'«eccidio di Cologna»

Imola: i funerali dopo l'eccidio, da cui scaturì la vendetta a Cologna
Imola: i funerali dopo l'eccidio, da cui scaturì la vendetta a Cologna
Imola: i funerali dopo l'eccidio, da cui scaturì la vendetta a Cologna
Imola: i funerali dopo l'eccidio, da cui scaturì la vendetta a Cologna

Riflettori puntati su una vicenda controversa della storia colognese. Una vicenda che ancora oggi scuote le coscienze e, in certi casi, contribuisce a riaccendere micce di rancori sopiti. A quasi settant'anni dal cosiddetto «eccidio di Cologna», l'ex insegnante Guerrino Maccagnan ha pubblicato una ricerca documentata su un terribile fatto di sangue avvenuto alla fine della seconda guerra mondiale, nella notte tra il 25 e 26 maggio del 1945. La sua ricerca è finita su un fascicolo, intitolato «I frutti avvelenati dell'odio», abbinato alla rivista «La Mainarda».
Prima di narrare la barbara uccisione di sei persone lungo le sponde del Guà, Maccagnan parte da un antefatto, che forse può spiegare l'origine di tanto odio. A Imola, tra il 12 e il 13 aprile del 1945, vennero torturati ed uccisi dalle Brigate Nere 16 uomini. Alcuni erano partigiani ed altri erano solo oppositori del regime. I loro corpi seviziati furono gettati nel pozzo di uno stabilimento ortofrutticolo, noto come Pozzo Becca. Vennero ripescati il 15 aprile e sepolti due giorni dopo, al termine di un commosso corteo di familiari e cittadini sconvolti. Questo massacro fu con tutta probabilità la scintilla che fece scoppiare la vendetta di Cologna. Fra i «martiri di Pozzo Becca», infatti, c'era un partigiano molto conosciuto, Domenico Rivalta detto Minghinè, il capo dell'intera organizzazione militare imolese. Nella notte del 25 maggio, un mese e mezzo dopo l'«eccidio di Imola», una ventina di partigiani provenienti proprio dalla città romagnola «prelevò un gruppo di innocentissime vittime – scrive Maria Bagini, una giornalista dell'epoca – e le uccise sulle rive di un torrente, dopo averle sottoposte ad oltraggi e sevizie incredibili ed oscene. Furono ritrovate, all'alba del 26, scalze, seminude, gli abiti in brandelli, i visi tumefatti, le teste schiacciate». Chi erano queste «innocentissime vittime»? La più nota e più giovane era la 16enne Luciana Minardi, arruolatasi nel battaglione «Colleoni» della X MAS. Minardi era già stata arrestata dagli inglesi al confine fra Emilia Romagna e Veneto. Non appena era stata rilasciata aveva deciso di scappare a Cologna, dove si erano rifugiati alcuni suoi familiari ed amici. Forse proprio seguendo le sue tracce i partigiani fecero irruzione nell'ex asilo di via XX marzo e prelevarono tre uomini e tre donne. Li condussero sull'argine del Guà e, dopo averli torturati, li fucilarono. Oltre a Minardi, furono uccisi Iride Guidi in Baldini, 36 anni, col figlio sedicenne Alessandro (Nino), Giuliano Ferri e Ugo Tarabusi, entrambi di 20 anni, soldati della Guardia nazionale repubblicana, e Speranza Cappelli in Ravaioli, 31 anni, madre di due bimbi piccoli. Il giorno seguente gli autori dell'eccidio si recarono a Verona e si fecero consegnare 16 prigionieri fascisti per giudicarli ad Imola. Condotti su un camion fino a Castel San Pietro, i malcapitati trascorsero la notte nella sede del CLN e furono picchiati. Seguì un orribile linciaggio in piazza ad Imola, dove morirono 12 dei 16 prigionieri. Molti interpretarono questo fatto come una vendetta spietata per i fatti di Pozzo Becca. «Purtroppo», rileva Maccagnan, «il processo su questi crimini non c'è stato, sebbene fossero noti i nomi dei partigiani coinvolti e dei loro complici, e sono pure scomparsi gli atti degli interrogatori». P.B.

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