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I quaranta giorni del covid hospital

I primari del covid hospital Magalini di Villafranca con il direttore Montresor FOTOSERVIZIO DI  LUIGI PECORADue infermiere al reparto di malattie infettiveIl direttore Paolo MontresorMatteo Grezzana, geriatraChiara Danzi, infettivologaMarta Zaninelli, oncologaGuido Polese, pneumologo
I primari del covid hospital Magalini di Villafranca con il direttore Montresor FOTOSERVIZIO DI LUIGI PECORADue infermiere al reparto di malattie infettiveIl direttore Paolo MontresorMatteo Grezzana, geriatraChiara Danzi, infettivologaMarta Zaninelli, oncologaGuido Polese, pneumologo
I primari del covid hospital Magalini di Villafranca con il direttore Montresor FOTOSERVIZIO DI  LUIGI PECORADue infermiere al reparto di malattie infettiveIl direttore Paolo MontresorMatteo Grezzana, geriatraChiara Danzi, infettivologaMarta Zaninelli, oncologaGuido Polese, pneumologo
I primari del covid hospital Magalini di Villafranca con il direttore Montresor FOTOSERVIZIO DI LUIGI PECORADue infermiere al reparto di malattie infettiveIl direttore Paolo MontresorMatteo Grezzana, geriatraChiara Danzi, infettivologaMarta Zaninelli, oncologaGuido Polese, pneumologo

Maria Vittoria Adami Dietro al bancone del reparto di malattie infettive, ci sono un ortopedico e una geriatra. Un cicaleccio di infermiere fa coraggio ai pazienti in camera, mentre un’equipe della terapia intensiva è salita per fare degli esami diagnostici a un ricoverato, senza spostarlo dal reparto. L’integrazione di competenze che ha visto lavorare al fianco di pneumologi e anestesisti anche oncologi, cardiologi o neurologi, è stata la chiave del «modello Magalini», il covid hospital convertito in quattro giorni, ai primi di marzo, da ospedale tradizionale a struttura esclusiva per pazienti con coronavirus. Una trasformazione repentina cui si sono adeguati subito i 560 dipendenti, tra medici infermieri e operatori sanitari, ottenendo risultati di cui oggi vanno fieri e destinati a fare letteratura. Due i protocolli applicati i cui risultati sono stati messi in rete con la comunità scientifica internazionale: quello della cura con Tucilizumab, l’antiatrite reumatoide che ha consentito di evitare l’aggravarsi della polmonite e così il ricovero in terapia intensiva a molti pazienti; e il Solidarity dell’Oms. Anche sul fronte dei decessi, dai risultati emerge che le cure prestate al Magalini hanno funzionato: il 5 per cento dei pazienti morti aveva meno di 69 anni. Per lo stesso target d’età, la percentuale italiana è del 16 per cento. E infine, la sicurezza: l’ospedale - nella difficoltà generale di reperire farmaci e dispositivi di protezione - ha registrato solo 11 dipendenti, il 2 per cento, positivi al tampone. Insomma l’ospedale, secondo il direttore Paolo Montresor, ha funzionato sia dal punto di vista della cura sia della protezione e gestione di una struttura appunto esclusivamente covid (con il 25 per cento di ricoverati di tutta la provincia di Verona) nella quale la possibilità di contagio era alta. «C’è stato un grande coraggio e spirito di volontà e vocazione da parte di tutti. Abbiamo lasciato le nostre abitudini professionali per una nuova configurazione», spiega Montresor. «A Verona, crocevia di traffico e vicina alle regioni più colpite, che ha sentito più di altre province il peso dell’emergenza, il Magalini si è rivelato un ospedale sicuro e protetto. E il frutto è merito di medici, infermieri e ausiliari che hanno fatto i salti mortali. È stato un risultato molto buono con dispositivi, organizzazione e multidisciplinarietà integrata. Non vogliamo la medaglia, ma il Magalini è stato un grande modello di organizzazione sanitaria del Veneto». Un lavoro corale. «Come un’orchestra», l’ha definito Montresor ieri affiancato dai suoi primari: il gastroenterologo Daniele Di Piramo; il neurologo Bruno Costa; il cardiologo Emanuele Carbonieri; l’infettivologa Maria Chiara Danzi; l’anestesista Simonetta Marchiotto; l’oncologa Marta Zaninelli; il pneumologo, attivo nel reparto di semi intensiva, Guido Polese; Matteo Frameglia e Bruno Genco del Pronto soccorso; il geriatra Matteo Grezzana e il collega di medicina interna, Paolo Garzotti, attivi in malattie infettive. «Ora c’è una seconda ondata, ma meno numerosa, anche se con pazienti più complessi. Ma seppur insidioso l’orizzonte è più sereno», continua Montresor che ha già stilato il piano per ritornare alla normalità. Il programma prevede il ripristino di tutte le specialità con ingressi separati rispetto all’area covid e dovrà essere approvato dalla direzione generale dell’ Ulss9 e inserito nel piano regionale. Questione di giorni. Riprenderà anche il punto nascite: l’intero piano di maternità e ostetricia che in questi giorni è stato «sigillato». «Peculiarità del Magalini», spiega Grezzana, «è stata la multidisciplinarietà. Sotto la conduzione clinica dell’area medica l’approccio al paziente è stato redistribuito su tutte le competenze dell’ospedale. Ogni caso, in malattie infettive, viene discusso ogni giorno da tutti noi. Il secondo aspetto è stata l’intensità di cura, a seconda della instabilità e severità del caso clinico. I risultati ci hanno dato soddisfazione». «La progettazione covid è stata una scommessa e ha funzionato», aggiunge Polese, «perché abbiamo avuto sempre la possibilità di curare la persona nel posto giusto con la giusta distanza tra un reparto e l’altro. Tutti ci conosciamo e abbiamo lavorato insieme, alla pari ciascuno con la sua competenza». «I protocolli condivisi tra di noi», conferma Marchiotto, «con i criteri clinici per definire i pazienti di terapia intensiva, ci hanno permesso di gestire i ricoveri tra reparto internistico, sub intensivo e terapia intensiva, senza discutere ogni volta. Per questo filone di sequenze non siamo mai arrivati a usare tutti i 30 posti di terapia intensiva, bloccando gli ingressi prima. Siamo stati in contatto con rianimatori di Lombardia e università di Verona e con i farmacisti ai quali chiedevamo determinate quantità di farmaci in base ai pazienti e hanno fatto un lavoro straordinario». Anche sul fronte del tucilizumab alla base di uno dei protocolli: «Abbiamo seguito le linee guida nazionali e internazionali basandoci sulle evidenze perché stiamo conoscendo questo virus insieme», conclude Danzi. «Il tucilizumab, usato anche a Napoli, ha dato buoni risultati, nei momenti complessi, per tenere i pazienti in semi intensiva». •

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