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Il caso

Rugby «sport violento» nel questionario psicologico, il team Valpolicella insorge

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Una partita di rugby
Una partita di rugby
Una partita di rugby
Una partita di rugby

«Mi piace molto praticare sport violenti (come per esempio il rugby)». L’affermazione, preceduta da «Sono molto goffo e maldestro» e seguita da «Odio tutta la mia famiglia», è contenuta nella versione italiana del questionario clinico MMPI2 (Minnesota Multiphasic Personality Inventory 2) usato dagli psicologi in tutto il mondo per valutare la personalità e i disordini di tipo emotivo, per approfondire e identificare sintomi psicopatologici, per formulare diagnosi o monitorare i progressi di un trattamento in corso.

Si tratta di un test che, in una delle 567 affermazioni, alla numero 477, tira in ballo il rugby come sinonimo di violenza. Ma questo accostamento non è andato giù per niente al Valpolicella Rugby 1974, che raccoglie circa 300 giocatori, Prima squadra in serie A e quartier generale a San Pietro in Cariano. Il presidente Sergio Ruzzenente, tra i fondatori del club sportivo quasi 50 anni fa, ha scritto una lettera all’editore Giunti che pubblica in Italia il test MMPI2 chiedendo la rimozione della citazione. «Chiediamo di rivedere nel test la dicitura delle domanda 477 almeno nella versione italiana, e nelle altre lingue se vi è citato il rugby», afferma Ruzzenente, «anche considerando che il test MMPI2 è a diffusione mondiale e purtroppo da molti anni dà una visione fuorviante e penalizzante di un gioco che non merita tale etichetta denigratoria».

 

Al suo fianco in questa battaglia il direttivo e la mental coach della Prima squadra, la psicologa Giuliana Guadagnini, da cui è arrivato il suggerimento di farsi sentire. «Stiamo parlando di uno sport molto fisico, ma che con la violenza non ha nulla a che vedere», spiega Guadagnini. «In quella frase del test, che io stessa uso moltissimo in psicologia clinica, giuridica e del lavoro, l’esempio del rugby come sport violento è ingannevole e deve essere tolto. Il test arriva dagli Stati Uniti, è stato elaborato per la prima volta negli anni Cinquanta e ha avuto molti aggiornamenti. È ora di aggiornare anche questa domanda».

 

Nel giro di una settimana la casa editrice ha risposto alla richiesta della società, inviata per conoscenza anche alla Federazione Italiana Rugby, dicendosi disponibile ad accoglierla. «Comprendiamo che la frase da voi evidenziata possa risultare discriminatoria nei confronti del rugby, ma non era nostra intenzione né tantomeno degli autori far passare un’idea sbagliata di uno sport che sappiamo essere tra i più inclusivi», scrive Giunti alla Valpolicella Rugby. E infine la buona notizia: «Stiamo lavorando a una nuova versione e sarà nostra premura far sì che si escluda qualsiasi forma di discriminazione in nome di una più ampia di inclusività».

Obiettivo centrato, dunque, e grande soddisfazione per un club di provincia che non è nemmeno tra le grandi realtà. Ma che ha dimostrato voglia di lottare per uscire una volta per tutte dal pregiudizio che vuole assimilare il rugby a comportamenti violenti e ribadire come sia invece espressione di combattimenti e scontri corpo a corpo ma sempre nel rispetto di regole e avversari. Un gioco duro, magari, ma mai aggressivo. Nella lettera inviata alla casa editrice, il presidente del Valpolicella Rugby delinea le caratteristiche del gioco, ne ripercorre la storia, spiega i valori che diffonde. E la presa di posizione del club valpolicellese sta riscuotendo molti plausi a livello nazionale, da altre società sportive, giocatori e tifosi. Da chi, insomma, questo sport lo conosce bene.

Camilla Madinelli

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