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«I bar sono un casinò»
Documentario
sul gioco d’azzardo

Vieri Brini ed Emanuele Policante, registi di «Rifiutati  dalla sorte e dagli uomini»
Vieri Brini ed Emanuele Policante, registi di «Rifiutati dalla sorte e dagli uomini»
Vieri Brini ed Emanuele Policante, registi di «Rifiutati  dalla sorte e dagli uomini»
Vieri Brini ed Emanuele Policante, registi di «Rifiutati dalla sorte e dagli uomini»

Il virus del Gap, il gioco d’azzardo patologico, si diffonde in bar, caffè, ristoranti, fast-food, osterie, trattorie, sale giochi, tabaccherie, alberghi, circoli privati, persino stabilimenti balneari: ovunque ci sia una slot machine. In Italia si calcola che il gioco d’azzardo riguardi tra l’1,27% e il 3,8 % della popolazione. Ma forse fa più impressione tradurre: sono tra 770mila e 2,3 milioni di persone. I giocatori d’azzardo patologici oscillano tra le 300mila e il milione e mezzo.

Nel 2013 le 380mila slot machine sparse nell’intero territorio nazionale si sono inghiottite oltre 80 miliardi di euro (sono dati ufficiali). E il numero di ricoverati in strutture di recupero è salito, tutti affetti dalla sindrome da gioco d’azzardo patologico.

«Abbiamo scoperto che mio marito aveva accumulato un debito di 20mila euro, i soldi che eravamo riusciti a mettere da parte per i nostri due figli», racconta Carla, 60 anni. «L’abbiamo saldato, ma ho paura che non sia l’unico. Adesso, quando lui esce, controllo che non abbia denaro con sé, ma chi mi garantisce che non se lo faccia prestare? E come posso reggere ancora la tensione che c’è in casa?»

È solo una delle storie che milioni di italiani potrebbero raccontare (la Gap non travolge solo malati ma anche la loro cerchia parentale). Due registi e sceneggiatori piemontesi, Vieri Brini ed Emanuele Policante, l’hanno fatto in un documentario di 70 minuti, Rifiutati dalla sorte e dagli uomini, che un anno fa era stato presentato anche a Verona al cinema Santa Teresa, presenti i due autori: «Il dibattito che segue in queste occasioni», aveva spiegato Brini, «non è certo sulla tecnica cinematografica. Ci viene chiesto di parlare di ciò che abbiamo visto. Perché, lo si capisci, il problema del gioco d’azzardo lo si vive sulla pelle. Abbiamo persino partecipato a riunioni dei giocatori anonimi, i corrispettivi degli alcolisti anonimi, naturalmente senza cinepresa. Proprio così, esistono anche i gruppi di auto-aiuto dei familiari di chi soffre di Gap».

Diego Rizzuto e Paolo Canova, rispettivamente matematico e fisico, ideatori del progetto «Fate il nostro gioco», una campagna di informazione sulla matematica del gioco d’azzardo, chiedono: «Ci avete mai pensato? “Qui vinti 10.000 euro”, “Acquistato in questa tabaccheria il biglietto vincente della lotteria di Capodanno”... I media ce li fanno vedere e noi memorizziamo quelli che vincono: articolo di giornale, messaggio sulla vetrina della tabaccheria... E quelli che perdono? Non li vediamo: inimmaginabile imbattersi in una scritta “Qui persi 300 milioni di euro”;. Così in Italia si sono potuti vendere in un anno 2 miliardi e 200 milioni di Gratta e vinci».

GLI STESSI REGISTI hanno raccontato: «Una mattina eravano in un bar. Nella mezz’ora in cui siamo stati seduti al nostro tavolino, una persona sembrava pietrificata davanti alla slot. Gli unici movimenti erano quelli della mano che metteva monete nella macchinetta. Il nostro documentario è nato quel giorno, in quel bar. Perché i bar da luoghi sociali stanno diventando piccoli casinò, con clienti che, completamente alienati da ciò che gli sta intorno, non partecipano alla vita collettiva ma dedicano tutto il tempo libero, e non solo, alla slot. E altri attendono il proprio turno, come si aspetta che si finisca di leggere il giornale per impossessarsene».

Nel documentario un ex giocatore patologico, E., così racconta la sua vita da giocatore: «La mia giornata era scandita dal gioco e, ahimè, dal lavoro, nel senso che io uscivo dal lavoro a volte alle 14, in pausa pranzo, a volte alle 17 o alle 18 e la prima cosa che facevo era andare a giocare, restando lì fino a che il locale era aperto. Tutto il mio tempo libero era dedicato al gioco, non c’erano pause, neanche per mangiare».

E la la sfera familiare e sociale? Nel documentario il racconto di Annamaria Quinterno, ex moglie di un giocatore, non lascia spazio a fraintendimenti: «La cosa più pesante era fronteggiare quotidianamente la richiesta di denaro. Io non volevo darne a mio marito, ma lui ne chiedeva ancora. Alla fine mi sono accorta che mi bastava dargli una banconota da cinque euro per farlo smettere di chiedermi soldi. Con quei cinque euro lui partiva e andava a giocare. E me lo toglievo di torno...».

Paola Bosaro

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