<img height="1" width="1" style="display:none" src="https://www.facebook.com/tr?id=336576148106696&amp;ev=PageView&amp;noscript=1">

«In Russia mi salvai
evitando l’alcol
Era morte sicura»

Giulio Ferrari, secondo da sinistra in piedi, con i suoi commilitoni
Giulio Ferrari, secondo da sinistra in piedi, con i suoi commilitoni
Giulio Ferrari, secondo da sinistra in piedi, con i suoi commilitoni
Giulio Ferrari, secondo da sinistra in piedi, con i suoi commilitoni

Si è fatto tutta la guerra, dal 1939 quando partì militare di leva a vent’anni, fino al 16 agosto 1945 quando arrivò col treno a Pescantina di ritorno dalla prigionia in Germania. Ma l’alpino Giulio Ferrari, 98 anni il prossimo dicembre, è un fiume in piena quando raduna i ricordi e li organizza per raccontare la sua giovinezza passata tra morti, sofferenze, rischi incalcolabili e oggi ha la fortuna di poterli rievocare con una lucidità straordinaria.

L’amico Angelo Andreis, che è stato suo sindaco nel periodo i cui anche Giulio si impegnò attivamente come consigliere comunale a Cerro, ha avuto l’accortezza di registrare e conservare i suoi ricordi perché oggi richiamarli ancora alla mente è una sofferenza troppo grande per sé e i suoi familiari.

Nato a Lugo di Grezzana il 12 dicembre 1918, sposato con Carmela Busato con la quale ha avuto quattro figli, Giulio è sempre stato contadino di tempra forte e di fisico tenace, caratteristiche che lo aiutarono a uscire da situazioni davvero difficili.

IL 30 APRILE 1939 partiva in treno per Vipiteno, arruolato nel 6° Alpini dove frequentò un corso di segnalatore radiotelegrafista, perché unico, su 90 reclute di quello scaglione, ad avere la licenza di quinta elementare. Nei primi mesi di naia ci fu la mobilitazione, prima a presidiare il confine con la Svizzera al Gran San Bernardo, quando si temeva un’invasione tedesca, poi in Piemonte e Valle d’Aosta, quando cominciarono le ostilità lampo con la Francia. Il vero fronte di guerra, per il radiotelegrafista Giulio Ferrari si presentò col trasferimento in Albania: anche lì doveva essere una passeggiata per «spezzare le reni alla Grecia», invece, «portati sul confine, ci dovemmo ritirare sotto il fuoco greco e poi restare rintanati per un mese a causa di una forte nevicata: solo l’arrivo dei tedeschi che sottomisero la Grecia pose fine alle ostilità. In tutto questo disastro ebbi solo la fortuna che in tutta la nostra compagnia, sia in Francia sia in Albania e Grecia non ci fu un solo morto», racconta.

Nel luglio 1942 Ferarri partì per la campagna di Russia dove ebbe l’occasione di stare con il «sergente nella neve» Mario Rigoni Stern. «Eravamo destinati al Caucaso, come alpini, ma ci dirottarono sul Don a presidiare un avamposto italiano che era martellato dai sovietici», racconta. Anche lì il suo compito era quello di segnalatore con l’eliografo, una specie di telegrafo senza fili che utilizzava lampi di luce solare riflessi in uno specchio, ruotandolo e interrompendo la luce con un otturatore, creando quindi segnali lunghi e corti come fossero lettere dell’alfabeto Morse.

«NELLA RITIRATA di dicembre e gennaio mi sono messo addosso un doppio passamontagna per difendermi dal freddo, ma nonostante questo mi sono congelato un orecchio. Ho però avuto l’accortezza di non bere alcol, come facevano tanti miei commilitoni, perché si ubriacavano e non riuscivano più a camminare e si congelavano mani e piedi: era morte sicura».

«La mia fortuna fu anche che, quando sul Don mi mandarono a scavare trincee anticarro, mi si ruppero le scarpe. Nel cambio me ne assegnarono un paio molto più grandi del mio numero di piede, ed ebbi così la possibilità di indossare tutte e tre le paia di calze di lana che mia sorella mi aveva inviato dall’Italia. Jè sté la me salvessa de sicuro!», aggiunge con un nodo alla gola.

La ritirata nel suo ricordo fu un cammino disordinato e tragico, «con tanti morti lungo la strada, quattro cinque corpi uno sopra l’altro, ma non si poteva far nulla. Potevi solo contare su te stesso, sulla fortuna e sulla bontà della gente russa che apriva le porte di casa per tenere per qualche ora al caldo i soldati. Gran bona gente i russi», commenta ancora oggi a settant’anni da quei tragici giorni. Ricorda una donna che dal suo grembiule toglieva una patata alla volta e la dava ai soldati che passavano: ne distribuì in questo modo un centinaio.

Ma anche Giulio non si risparmiò in atti di solidarietà ed eroismo: accompagnò per mano per due giorni un commilitone accecato, che poi divenne suo cognato e quando fu un grado di camminare da solo, per un altro giorno, si caricò sulle spalle un soldato bresciano che si era rotto una gamba. In queste condizioni non poteva certo difendersi e fu infatti catturato dai russi, per un solo giorno: poi i due soldati che erano di guardia ai prigionieri scomparvero improvvisamente, richiamati per difendere le postazioni di Nikolajewka e una donna avvisò gli italiani di andarsene perché le guardie non c’erano più.

SI INCAMMINARONO con un ufficiale tedesco a cui Giulio giocò uno scherzo che poteva costargli caro: quando si avvicinarono a un pollaio entrò per prendere una delle due oche presenti e cuocerla in compagnia per la sera, ma il tedesco si presentò sulla porta del pollaio ordinandogli la consegna dell’animale. Giulio gli indicò che in fondo al pollaio ce n’era un’altra e quando l’ufficiale entrò per cercarla, Giulio uscì di corsa con la sua oca e chiuse dall’esterno la porta lasciando dentro il tedesco.

IL PREMIO per essere tornato vivo dalla Russia fu un mese di licenza a casa, il tempo di rimettersi e tornare a Bolzano per un corso marconisti, operatori addetti alle comunicazioni radio. È lì che con l’inganno di essere rimandato a casa, venne invece disarmato e spedito da prigioniero del Reich in Germania dopo l’8 settembre 1943.

Lavorò ad Hannover in fonderia «posto scelto da me, nella speranza che almeno non avrei patito il freddo della Russia», ammette, fino all’arrivo degli americani il 9 aprile del 1945. Ci vollero quattro mesi per organizzare il rientro e ad agosto «finalmente i na cargà su e semo vegnùi a casa. Fine della guerra», conclude Giulio, con un pensiero ai tanti amici per i quali non ha potuto far nulla e con il rimpianto di sei anni di gioventù persi fra le montagne e la steppa.

Vittorio Zambaldo

Suggerimenti