<img height="1" width="1" style="display:none" src="https://www.facebook.com/tr?id=336576148106696&amp;ev=PageView&amp;noscript=1">
La testimonianza

Il Covid, il coma, il risveglio: «Ecco il libro scritto con l'unico dito che muovevo»

Franca Mirandola con il suo libro
Franca Mirandola con il suo libro
Mirandola

Ha trascorso sette mesi in ospedale per cercare di sopravvivere al Covid che le aveva provocato polmonite bilaterale, pancreatite acuta, trombosi agli arti inferiori e una neuropatia che per mesi l’ha lasciata paralizzata dal collo in giù. Franca Mirandola, 57 anni, nata a Bussolengo e residente in città a Montorio, sposata e madre di tre figli, è medico di medicina generale e presidente onorario della Fismu (Federazione italiana sindacato dei medici uniti): «Mi hanno nominata quando sono uscita dall’ospedale», spiega sorridendo, grata ai suoi colleghi.

 

Si è infettata durante la prima ondata, a fine marzo 2020, contagiata da un paziente della casa di riposo dove lavorava. «I medici non si sono mai spiegati come abbia fatto a venirne fuori», racconta felice di essere riuscita a rovesciare le previsioni che la davano per spacciata. «Anche se la mia paura più grande non era morire, ma non riuscire a vivere in modo dignitoso», continua. «Quando guardo le mie lastre e risonanze non mi capacito di esserci ancora e, soprattutto, di non avere disabilità. Guarda qui», dice alzandosi di scatto e piegando il ginocchio. «Sono tornata come prima, anche se è stata durissima. L’ho voluto con tutte le mie forze, perché quando mi sono svegliata dal coma riuscivo a muovere solo il dito di una mano, il medio della destra. È stato con quello che ho iniziato a scrivere il libro in ospedale. Magari a qualcuno potrà servire». Il suo libro, diretto e intenso come lo è lei, si intitola Sopravvivere per vivere. La mia vittoria contro il Covid (edizioni EdiKiT, 182 pagine, si trova su Amazon e a breve anche nelle librerie) ed è stato pubblicato in questi giorni.

Leggi anche
I sogni durante il coma: «Vedevo mia madre dall'alto lato dell'Adige»

 

È diviso in due parti. La prima contiene i sette mesi di lotta per restare viva, i suoi ricordi, le sue emozioni, i pensieri e le foto di quei momenti durissimi, fino ai festeggiamenti davanti all’ospedale nel giorno delle dimissioni. «Mio marito e le mie cugine hanno portato musica, fiori e il tricolore», ricorda felice. «Sono persino arrivati i vigili per chiederci cosa stavamo facendo», sottolinea divertita. «Ma l’immagine che chiude quel periodo è la foto del mio letto d’ospedale vuoto». La seconda parte, invece, è dedicata ai «Contributi», ovvero a ciò che provavano e pensavano familiari, amici, colleghi e pazienti mentre lei lottava contro il Covid. Ci sono anche gli interventi del direttore generale dell’Ulss 9 Pietro Girardi e del presidente dell’Ordine dei medici di Verona Carlo Rugiu. «Non sono un tipo che si arrende facilmente: ho combattuto per uscire dal coma, ho fatto dolorosissimi mesi di riabilitazione per tornare a muovermi, ho lottato ancora quando sono rifinita in terapia intensiva per la pancreatite: ero convinta di essere sopravvissuta e invece sono ripiombata nella disperazione, in rianimazione», dice. «Ora apprezzo ogni momento. E do del tu a tutti, pazienti compresi, perché il Covid ci ha tolto il contatto fisico ed è giusto che si crei almeno una vicinanza emotiva. In ospedale vedevo solo gli occhi dei sanitari, ma quel contatto visivo e le loro parole mi hanno tenuta in vita».

 

Era il 29 marzo 2020 quando ha scoperto di essere positiva. Ha iniziato subito a prendere antibiotici e cortisone, ma peggiorava. «Prima che arrivasse l’ambulanza, con la forza della disperazione, ho fatto le scale e sono uscita in giardino per vedere i miei fiori per l’ultima volta», ricorda. «Pensavo che non ne sarei uscita viva, da medico sapevo a cosa andavo incontro». È stata portata all’ospedale di Villafranca dove le hanno detto che l’avrebbero intubata e ricoverata in terapia intensiva. «Ho detto di no, che non volevo», riprende. «Per fortuna non mi hanno ascoltata, altrimenti sarei morta». In coma farmacologico, si è ritrovata in un mondo parallelo. «Fatto di sogni continui», racconta, «molto nitidi, tanto da sembrare reali, ma nello stesso tempo provavo il desiderio di uscire “da lì”: ho dato l’anima per svegliarmi e lasciare quella realtà». Le è servito un mese, ma alla fine è «riemersa» in un letto della Terapia intensiva di Borgo Trento, dov’era stata nel frattempo trasferita. «Il medico che mi ha svegliata qualche giorno dopo mi ha chiesto di cosa avessi voglia. “Un gelato alla liquirizia, il mio preferito” ho detto subito. “Difficile trovarlo”, mi ha risposto, “vediamo cosa riesco a fare”. È tornato con una gelatina rossa cattivissima, anche se non gliel’ho detto, ma almeno fresca. Un gesto bellissimo, che non dimentico. Ringrazio lui, tutti i medici e il personale ospedaliero che mi hanno guarita. Senza loro non sarei qui. Fanno un lavoro difficile e durissimo, anche dal punto di vista psicologico, spesso non riconosciuto dalla gente, rischiando in prima persona».

 

Dopo mesi di lontananza è finalmente riuscita a riabbracciare suo marito («Quando l’ho visto ho pensato “È il più bell’uomo del mondo!”», dice) e i suoi amati tre figli. «Tornata a casa non avevo energie, faticavo a fare tutto ma ho subito voluto cucinare pasta e gamberetti per festeggiare il mio rientro anche se poi ero distrutta», ride divertita. Poi torna seria: «Ho sognato spesso di essere paralizzata e l’estate scorsa non sono voluta andare in vacanza. L’ultima volta che ho lasciato la casa sono stata via sette mesi... Avevo paura». Nel marzo del 2021 è tornata nel suo studio medico affiancando il sostituto che aveva lasciato al suo posto. «Volevo capire se ero ancora in grado di fare il mio lavoro», spiega. «Settimana dopo settimana mi accorgevo che l’energia tornava, la mente era lucida e così ho ripreso il mio posto, anche se ho deciso di trasferirmi dallo Stadio a Santa Lucia per lavorare non più da sola, ma in uno studio con altri sette medici di medicina generale, due infermiere e tre segretarie. Una medicina di gruppo affiatata che riesce a dare importanti risposte sul territorio in un periodo difficile come questo». Dopo quello che le è accaduto ha ricevuto molte dimostrazioni d’affetto e molti suoi pazienti si sono fatti vaccinare. Ma tra i suoi assistiti ci sono anche No Vax. Come si comporta con loro? «Rispetto le idee di ognuno», risponde, «ma non riesco a sopportare chi dice che non ha paura del Covid. Io curo tutti, vaccinati e non, ma come medico non accetto che arrivino pazienti aggressivi, magari con l’avvocato a fianco, per chiedere esenzioni di cui non hanno diritto. In quei casi si spezza il rapporto di fiducia e non posso più essere il loro medico».

Chiara Tajoli

Suggerimenti