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Covid, in trincea in terapia intensiva

Il dottor Ivan Daroui responsabile della Terapia Intensiva dell’ospedale di Negrar   FOTO PECORA
Il dottor Ivan Daroui responsabile della Terapia Intensiva dell’ospedale di Negrar FOTO PECORA
Il dottor Ivan Daroui responsabile della Terapia Intensiva dell’ospedale di Negrar   FOTO PECORA
Il dottor Ivan Daroui responsabile della Terapia Intensiva dell’ospedale di Negrar FOTO PECORA

C’è un prima e c’è un dopo. Nella lotta al Covid-19 c’è il picco di marzo, che ha lasciato attonita l’Italia intera alle prese con il primo lockdown, e c’è l’onda di novembre - dicembre, un’alta marea costante per settimane, ma percepita meno nella sua potenza da chi se ne sta fuori dagli ospedali. Forse distratto dallo sforzo di rendere «normale» una pandemia che solo in questi giorni sta regalando una tregua. Sensazione? «Di sconforto». A parlare, in uno studio del quarto piano del Don Calabria trasformato in reparto Covid (come anche il terzo) è il dottor Ivan Daroui, 49 anni, responsabile della terapia intensiva. L’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar da quasi un anno è in prima linea contro la pandemia scatenata dal Sars CoV-2, modula in accordo con la Regione Veneto l’offerta di letti - fino a 94 tra malattie infettive, subintensiva e terapia intensiva - senza rinunciare a tutte le altre attività di cura, in particolare la chirurgia. Questo giro di boa, l’inizio del dodicesimo mese, fa sentire tutto il suo peso proprio mentre fuori si festeggia per la riapertura di bar, scuole, ristoranti e musei. Mi spieghi lo sconforto. «Vede, a marzo abbiamo dovuto preparare la logistica, procurarci quel che mancava, confrontarci con una malattia sconosciuta, ma partivamo carichi per la battaglia. Adesso abbiamo tutto, è bastato riaccendere le luci. Lo sconforto nasce dalla consapevolezza che il Covd 19 non è un ostacolo da superare ma una maratona, mentre le nostre forze non sono infinite». L’esser stati vaccinati non vi aiuta? «Se si riferisce al timore di ammalarci, direi di no. L’ospedale è molto sicuro, i dispositivi individuali funzionano. In marzo, su 70 che ci ruotiamo, uno solo è stato colpito. Nella seconda ondata a parità di precauzioni un numero significativo di collaboratori ha avuto il Covid, un’infezione presa fuori, in famiglia. Io stesso l’ho avuto, per fortuna in forma lieve. Il vaccino è importante soprattutto perché, e speriamo sia proprio così, ferma la catena del contagio. Per l’immunità di gregge. Lo ripeto, l’ospedale è un posto sicuro. Il problema è che continuano ad arrivare pazienti in condizioni critiche e in terapia intensiva vediamo situazioni se possibile più gravi e complesse che in marzo». Perché? «Gli avanzamenti sul piano delle cure riguardano esclusivamente la fase precedente a quella della terapia intensiva. Qui continuiamo a gestire i sintomi, non abbiamo armi specifiche». Rispetto a marzo cosa è cambiato? «Quando inizia il calo di saturazione dell’ossigeno ora abbiamo risposte efficaci. Abbiamo visto che l’idrossiclorochina non funziona, invece sono utili l’eparina e gli steroidi, l’esametasone. Anche il remdesivir. Tutte le terapie più promettenti sono relative alle fasi iniziali, compresi gli anticorpi monoclonali. Anche l’utilizzo del plasma iperimmune è valido in alcune situazioni. La sfida è fermare la malattia prima che serva la rianimazione. Ma ai familiari dei pazienti che arrivano qui da noi dobbiamo ripetere che medicine per il Covid non ne abbiamo, pur facendo un ampio uso di farmaci, per la sedazione generale ad esempio». Oggi chi finisce in terapia intensiva? «Rispetto a marzo l’età media si è alzata, dai 63 - 65 anni di allora agli attuali 72. Prima le condizioni precipitavano dopo 7 - 10 giorni dall’esordio della malattia, adesso i tempi si sono un po’ allungati. Sono tutti segnali che oggi siamo in grado di curare più pazienti e che solo un gruppo più ristretto vede un peggioramento critico. Abbiamo contatti costanti con i colleghi dell’area Covid, ci consultiamo sui casi, però alla fine chi arriva qui oggi è in condizioni peggiori rispetto a chi vedevamo in marzo». La tempesta di citochine... «Ai familiari io lo spiego così: è come se il Covid costringesse il sistema immunitario a sparare tutte le sue cartucce, fino a rimanere senza munizioni. Gli alveoli dei polmoni vengono riempiti di una miscela di sostanze prodotte dall’infiammazione che impedisce lo scambio gassoso, sono intasati e induriti. Supportiamo i pazienti finché non sono in grado di produrre anticorpi che ripuliscono i polmoni. A volte però, superata questa fase, subentrano sovrainfezioni batteriche, shock settico. In questo momento abbiamo due pazienti negativizzati e trasferiti nell’altra terapia intensiva. Durante questa sorta di depressione immunitaria rischiamo di perderli. Succede più che a marzo, quando la mortalità era del 28%. Probabilmente perché oggi sono i più anziani e i più fragili ad entrare in terapia intensiva». Età a parte, chi rischia di più? «Persone con comorbilità, ipertensione, diabete. Secondo me non si parla abbastanza del sovrappeso e dell’obesità. Il 90 per cento delle persone che vediamo qui è in sovrappeso. Il grasso ha un ruolo molto importante. Avere il Covid è come una corsa, i polmoni sono proporzionali all’altezza della persona, sono più sotto sforzo quando la massa è maggiore». Ha dovuto scegliere chi salvare? «No, assolutamente. Anche nei momenti di picco abbiamo sempre trovato una soluzione. Le scelte che dobbiamo fare sono di altra natura: noi qui supportiamo la respirazione, anche con la tecnica della pronazione, che richiede di capovolgere il paziente per cicli di 16 -18 ore. Non sempre arriviamo a intubare. L’aggressività della terapia dev’essere proporzionale alla prospettiva di miglioramento, c’è il rischio altrimenti di accanimento. Sono decisioni che arrivano attraverso un consulto tra colleghi e dopo aver informato la famiglia». Qualche volta pensa: non ce la faccio più? «Quando perdiamo pazienti ancora giovani, che erano sani e ci facevano sperare in una buona ripresa. L’ultimo, un 68enne, domenica. Ecco, quando questo si ripete... Anche comunicare le cose peggiori, per telefono, non è affatto semplice. La nostra regola è comunque quella di chiamare tutti i giorni i familiari, informandoli sul decorso, per non lasciarli mai all’oscuro di nulla». Quanto è faticoso? «È quasi una disciplina militare: lavorare tutto il turno bardati, senza bere, occuparsi sempre di una sola patologia così grave, subdola e impegnativa. Fare i conti con le perdite, con il dolore di chi resta. Siamo tutti provati, credo che gli effetti li vedremo nei prossimi mesi» Lei come resiste? «Vivo un po’ come tutti in una sorta di clausura, ospedale e casa. La famiglia è un bell’aiuto. Ho tre figli di 10, 12 e 14 anni e mia moglie che è infermiera, anche lei ospedaliera. Stare con loro, una passeggiata, questo aiuta». Cosa vede all’orizzonte? «Spero di sbagliare, ma temo che nel giro di tre settimane un mese arriverà la terza ondata. Attorno a noi lo vediamo in Francia, in Portogallo. Ora siamo in zona gialla e capisco benissimo la necessità di tutti di lavorare, il desiderio di normalità. Ma stiamo attenti, dobbiamo continuare a tenere alta la guardia, tutti devono avere senso di responsabilità». •

Francesca Mazzola

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