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«Spaventa lo scioglimento al Polo»

Michael Lonardi durante la spedizione Mosaic Deborah Bozzato al lavoro sul ghiaccioGli scienziati veronesi Michael e Deborah
Michael Lonardi durante la spedizione Mosaic Deborah Bozzato al lavoro sul ghiaccioGli scienziati veronesi Michael e Deborah
Michael Lonardi durante la spedizione Mosaic Deborah Bozzato al lavoro sul ghiaccioGli scienziati veronesi Michael e Deborah
Michael Lonardi durante la spedizione Mosaic Deborah Bozzato al lavoro sul ghiaccioGli scienziati veronesi Michael e Deborah

La gioia di raccontare un’esperienza che entrerà nella storia si mischia al dolore di aver visto sul campo gli effetti del cambiamento climatico di cui tanto si parla, senza che la politica mondiale faccia davvero qualcosa per modificare la rotta di questa pericolosa tendenza. Al rientro dalla spedizione Mosaic (acronimo di Multidisciplinary drifting observatory for the study of arctic climate), la più imponente finora realizzata per raggiungere il Polo Nord e studiare clima e ambiente artico, i veronesi Michael Lonardi e Deborah Bozzato raccontano gli oltre due mesi di lavoro, tra giugno e agosto, vissuti come componenti del quarto equipaggio di scienziati (sui cinque che si sono alternati) sulla nave rompighiaccio Polarstern dell’Istituto di ricerche marine e polari Alfred Wegener (Awi) di Bremerhaven (Germania), capofila della spedizione. Per quasi tutto l’anno di durata della missione, che si è conclusa il 12 ottobre scorso, la nave ha viaggiato a motori spenti lasciandosi trasportare dalla banchisa su cui si era ancorata, utilizzata come campo di ricerca. «Mi ha impressionata la dinamicità del ghiaccio, vederlo diminuire da un giorno all’altro. Nonostante ci sia una porzione di Artico che rimane ghiacciata, oggi sta aumentando la parte che si scongela e ricongela», spiega Deborah Bozzato, 29 anni, biologa e ricercatrice dell’Università di Groninga, nei Paesi Bassi. «Questa dinamicità è solo in parte dovuta alla stagionalità», prosegue, «non è una sorpresa trovare lo scioglimento in estate, ma la velocità con cui avviene è il fattore che ci spaventa, dovuto sicuramente al cambiamento climatico». Il fatto stesso di essere riusciti ad arrivare al Polo Nord è stato possibile per le mutate condizioni dell’Artico, sottolinea Michael Lonardi, 27 anni, che sta svolgendo il dottorato di ricerca all’Istituto di meteorologia dell’Università di Lipsia. Le loro vite si sono incrociate la scorsa primavera durante la preparazione alla partenza, quando hanno scoperto che sulla nave ci sarebbero stati quattro italiani, tutti però per conto di università e istituti di ricerca esteri. Un pezzo non solamente di Verona sulla Polarstern, ma anche di Castelnuovo del Garda, dal momento che le famiglie di Michael e di Deborah vivono nel paese gardesano. RISULTATI. Ci vorrà tempo per analizzare la grande quantità di dati e materiali raccolti durante la spedizione, mettendoli insieme in studi e pubblicazioni scientifiche, ma le prime evidenze sono state comunicate anche dal capo della spedizione, Markus Rex, appena sceso dalla nave. «Il ghiaccio marino sta morendo», ha dichiarato senza mezzi termini, «l’intera area è a rischio: abbiamo visto con i nostri occhi come il ghiaccio scompaia là dove c’era solo fino a poco tempo fa, e nelle aree dove avrebbe dovuto avere uno spessore di molti metri è fortemente assottigliato, in alcuni punti non c’è del tutto». Deborah porterà avanti le analisi all’Università di Groninga: «Ci sarà molto confronto tra colleghi per spiegare i dati e i meccanismi che li regolano. Il mio progetto di ricerca si basa su questa spedizione». Lo stesso vale per Michael, che per Mosaic ha anche costruito degli strumenti per la raccolta dei parametri atmosferici. «Una cosa è stare seduti al computer e vedere cosa elabora il modello climatico, un’altra è essere lì col vento in faccia ad effettuare le misurazioni. È il modo in cui le fai che aiuta ad analizzare e comprendere meglio i dati», racconta. Concorda Deborah: «Vedere dal vivo ciò che si studia dà motivazione sia per andare avanti nel proprio lavoro che per spiegare agli altri l’importanza di quello che si è visto». A rendere unica la missione sono state anche la collaborazione e l’amicizia nate con i colleghi. «Abbiamo conosciuto persone con esperienze diversificate, è stato un continuo imparare ogni giorno», dicono, grati della sinergia creata nel gruppo. Alla domanda se si sentano «cervelli in fuga», rispondono con un sorriso, poi Deborah prende la parola esprimendo il sentire di entrambi: «Rimanere all’estero non era programmato, ma finora ho trovato opportunità che in Italia non mi sono state offerte. Purtroppo quando mi confronto con colleghi che lavorano in Italia vedo che non c’è la stessa meritocrazia, i fondi per la ricerca non sono tanti e guardando il luogo dove ho più opportunità, al momento non è l’Italia», riscontra con un pizzico di rammarico nello sguardo e nella voce. È un peccato, conclude, «mi sono formata in Italia, mi sarebbe piaciuto restituire qualcosa al mio Paese». •

Katia Ferraro

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