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«Io e i miei fratelli, nati in uno dei posti più belli al mondo»

Quando la vita era più povera, ma molto più ricca di valori umani, quando povertà si coniugava con dignità, via Arco a Lazise era abitata da famiglie che vivevano di pesca, di piccoli lavori artigianali e di modesti commerci. Spesso queste attività si sommavano all’interno della stessa famiglia per poter almeno sfamare i figli. Lì nel cuore antico del paese, dove fuori dalla porta un piccolo recinto di canne ospitava qualche gallina, nel 1940 è nato Gino Barato, l’ultimo dei pescatori di Lazise. Per fissare alcuni dei preziosi ricordi che sono anche le memorie di molti suoi compaesani, Barato ha scritto un libro che si intitola appunto «L’ultimo pescatore di Lazise – Ricordi di vita e di Lago». Con parole di uso quotidiano, semplici come era semplice ma pienamente autentica la vita, l’autore racconta di quando la gente del lago campava di pesca e di altre piccole attività “indotte”, prima di venire del tutto assorbita dalle occupazioni del turismo. «Mio padre e mia madre ebbero in tutto sei figli, tre maschi e tre femmine. Mi accorsi presto di essere nato in uno dei posti più belli del mondo. Eravamo una famiglia povera: qualunque lavoro andava bene ai miei genitori, pur di darci un pezzo di pane, ma vivevamo soprattutto di pesca, una professione che oggi va scomparendo. Era una vita molto dura». Le reti e tutti gli attrezzi per la pesca erano fabbricati a mano. «La casa era costituita da un’unica stanza, con le camere da letto delimitate da tende. Dal mio letto la notte potevo vedere mia madre lavorare alle reti davanti al camino. A volte si addormentava sul tavolo. Allora le dicevo: “Mamma vieni a letto che sei stanca”, e lei mi rispondeva: “Devo finire le reti, se vuoi che tuo papà prenda il pesce per mangiare”». Sbarcare il lunario era davvero un’impresa: la mamma di Gino doveva nascondere la sporta, perché altrimenti il pane finiva prima di mettersi a tavola, e non c’era la possibilità di comprarne dell’altro. Nel libro si leggono storie di personaggi e di famiglie, aneddoti e usanze, vicende tristi e liete, vi si narra delle fatiche e dei pericoli corsi nelle intemperie e nelle improvvise burrasche dai ruvidi e romantici pescatori che a volte remavano per ore fino raggiungere il campo dove calare le reti. Raccontano il lago e la sua gente, impegnata sull’acqua e sulle sponde, racconta la vita segreta dei pesci e le trappole escogitate per catturarli. Al porto, dopo essersi raccolte a pregare nella vicina chiesetta di San Nicolò per chiedere alla Madonna di preservare i mariti dalle insidie del lago, aspettavano le donne dei pescatori; e cominciava il piccolo commercio del pescato. Di pesce un tempo ce n’era in abbondanza. C’erano la trota lacustre e la trota iridea, il carpione, il coregone, il persico reale, la sarda (alosa), il luccio, l’anguilla, la tinca, la bottatrice, l’alborella (aola), la scardola, il cavedano. Oggi molte di queste specie sono scomparse. La pesca dell’anguilla è addirittura vietata per il pericolo che le sue carni contengano diossina. Ma quanto avvincente e suggestivo è apprendere le tecniche e gli strumenti da pesca pazientemente e con perizia usati e descritti da Barato; pratiche secolari impiegate nei vari periodi dell’anno, del tipo di barca, rete o attrezzo impiegati a seconda della preda da insidiare. Sono termini spesso desueti, ma ricchi di fascino e poesia. C’è (o c’era) la pesca col foron o il foronsin, con la ciara, col reoplano, il matròs, il cosacco, con le antenelle, i reoni, la frissa, la striara, il varonar. L’autore-pescatore ripercorre le epocali catture, descrive le tecniche per orizzontarsi in mezzo al lago tracciando virtuali coordinate tra campanili e piante secolari sulle sponde del lago. Svela i segreti dei fondali rocciosi o sabbiosi, formati da roccia, ciottoli o ghiaia, coperti da praterie di alghe o distese di melma; scopre i reconditi dove si celano le varie prede a seconda delle loro caratteristiche o della stagione. E ogni porzione di fondale ha un nome: Messòn, Fornaci. La distesa del lago cela catene di monti (El Scalin) con le loro valli e le loro cime (Monte Varana, Monte della Croce); ogni posto è più o meno adatto alla pesca delle singole specie. Si può affermare che la fortuna di Lazise e dei paesi del lago, sia da attribuire ai pescatori. La crescita dell’attività turistica turismo è merito loro. Con l’arrivo dei primi turisti negli anni Cinquanta, tornati a riva con le reti colme della generosa ricompensa per le loro fatiche, accanto alla pesca quegli uomini e quelle donne si sono ingegnati ad aprire i primi banchetti di pesce arrostito, si sono ristretti nelle proprie case per affittare qualche stanza, hanno avviato le prime locande, arrivando finalmente a guadagnarsi un po’ di benessere. Lo stesso Barato, accanto all’attività di pesca, con lo sviluppo del turismo, ha avviato una rosticceria. Nel tempo si è interessato alla politica, impegno espletato per tre legislature, a partire dal 1980, come consigliere comunale di Lazise. Un giorno, nella sua rosticceria, capitò un signore tedesco a prendere un paio di porzioni di aole fritte. Si scoprì che era il sindaco della cittadina bavarese di Rosenheim. Da lì nacque un gemellaggio con Lazise che nel tempo si è consolidato e ha portato a scambi interessanti sia da punto di vista culturale che economico. Di Barato è anche l’idea di realizzare in paese un museo della pesca, progetto rallentato dalla pandemia, per rendere un ricordo tangibile del lavoro tramandato da generazioni. L’autore dedica il volume al paese di Lazise e conclude le sue memorie con una esortazione: «Nel lago è sparita la vegetazione dal fondale, stanno diminuendo i canneti e l’inquinamento ogni anno sta aumentando in maniera incontrollata, anche a causa dei motori delle barche. Sono sparite molte specie di pesci, il carpione in primis e l’alborella, della quale una volta se ne pescavano quintali e che, nel periodo della frega, argentava le nostre rive. Mi appello a chi amministra: salviamo quello che ci è rimasto, ché nella vita non contano solo i soldi, altrimenti la natura ci manderà il conto. Non voglio fermare il mondo o il progresso, ma ci sono tanti modi di progredire senza distruggere il territorio. Dette da un uomo che con il progresso e il turismo si è garantito una vita decorosa, sono parole ancor più preziose e sagge. Intanto lui continua a uscire con la barca a gettare le reti e tornare di nuovo a ritirarle. Più che una necessità, o la soddisfazione sempre meno proporzionata all’impegno, è un pretesto per mantenere fede a un amore indissolubile, per non tradire la simbiosi col lago, come ha fatto per una vita e come hanno fatto per una vita i suoi avi e gli avi dei suoi compaesani. La testimonianza di Barato ha potuto concretizzarsi in un libro, grazie al Comune di Lazise e all’associazione culturale Francesco Fontana. La presentazione del libro è firmata dal sindaco Luca Sebastiano, mentre la prefazione è curata da Benedetta Scienza e Giangaetano Delaini. Il volume, è stampato da Vengraph di Povegliano, con il contributo di Sergio Marconi per editing e grafica. •.

Franco Bottacini

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