<img height="1" width="1" style="display:none" src="https://www.facebook.com/tr?id=336576148106696&amp;ev=PageView&amp;noscript=1">

In barca con i vecchi pescatori «Con i motori è finita un’epoca»

Mario Monese «Vado a pesca da quando “son nat”»Di padre in figlio Mario Monese: anche suo padre faceva il pescatore, così come il nonno FOTOSERVIZIO LUIGI PECORANovantadue anni Paride Malfer a bordo della sua “Erika“Pardie Malfer «Macché passione, "ghè fam"»
Mario Monese «Vado a pesca da quando “son nat”»Di padre in figlio Mario Monese: anche suo padre faceva il pescatore, così come il nonno FOTOSERVIZIO LUIGI PECORANovantadue anni Paride Malfer a bordo della sua “Erika“Pardie Malfer «Macché passione, "ghè fam"»
Mario Monese «Vado a pesca da quando “son nat”»Di padre in figlio Mario Monese: anche suo padre faceva il pescatore, così come il nonno FOTOSERVIZIO LUIGI PECORANovantadue anni Paride Malfer a bordo della sua “Erika“Pardie Malfer «Macché passione, "ghè fam"»
Mario Monese «Vado a pesca da quando “son nat”»Di padre in figlio Mario Monese: anche suo padre faceva il pescatore, così come il nonno FOTOSERVIZIO LUIGI PECORANovantadue anni Paride Malfer a bordo della sua “Erika“Pardie Malfer «Macché passione, "ghè fam"»

«L'acqua del lago era così limpida, e buona, che durante la pesca ti sporgevi dalla barca, la raccoglievi con la mano e la bevevi». È un ricordo nettissimo di vita e professione di Mario Monese, 71 anni, di Garda. Fa il pescatore da quando, di anni, ne aveva 12. Prima di lui gettava le reti nel lago suo padre, Ruggero. E prima ancora suo nonno. Zii, fratelli: tutti pescatori. «Vado a pesca da quando "son nat"», spiega Monese in dialetto, sorridendo. «Ho cominciato a seguire papà nei primi anni Sessanta, c'erano ancora le barche a vela o remi. Si usciva in tre, stavamo fuori anche 15 giorni di fila nell'alto lago durante la pesca del carpione», racconta. «Poi sono arrivati i motori, ed è cambiato tutto. Fu una rivoluzione». I primi che si attrezzarono con un propulsore fuoribordo se li ricorda ancora, Monese. «Li smontavano e rimontavano ogni volta, portandoseli in spalla a casa. Avevano paura che li rubassero, dalle imbarcazioni». Memorie indelebili di una Garda che non c'è più. E da parecchio, ormai. A pescare le "aolette", piccoli pesci di cui andavano ghiotte le trote, «si remava fino a Sirmione», continua. «Allora ce n'erano tantissime, soprattutto in quella zona. Oggi invece sono sparite, così come il carpione, mentre c'è più abbondanza di persico e luccio. Il lavarello resiste, ma vedremo fino a quando. Una volta si prendevano anche tante sardine e tinche. Per l'anguilla, che si pescava moltissimo e si cucinava in tanti modi, ormai c'è il divieto perenne a causa della contaminazione da diossina». È una mattina frizzantina, a Garda. Sole timido, lago piatto. Alle 8.30 Monese, a bordo della sua "Benedetta" di sei metri - battezzata con il nome della figlia primogenita - è appena rientrato al porto dopo la notte fuori. È così da una vita: il pomeriggio, tra le 17 e le 18, esce a fissare le reti e preparare tutto; rientra a casa, riposa e poi via, alle 3 del mattino (o di notte, a seconda dei punti di vista) col buio pesto va fuori al largo. Da qui in avanti, le ore di lavoro variano in base al pescato. «Più è abbondante e più, naturalmente, c'è da fare», continua Monese. «Se te le sbrighi subito, non è un buon segno». E c'è pure Paride Malfer, 92 anni quest'anno, che ritorna con "Erika" in porto. È uno dei più anziani insieme a Ettore Malfer, ultra ottantenne. La pesca è una passione a cui non sa rinunciare? «Macché passione, "ghè fam"», borbotta lui. Il record? Monese ci pensa un po' su. «Ventisette quintali di "aole" in un solo colpo, un vero colpaccio, nella pesca diurna col sistema della rete a catino: erano così tante che la mia barca non poteva caricarle tutte, il peso era troppo», spiega. «Avevo 20 anni ed ero abbastanza forte per caricarmele sulle spalle, a grandi quantità, per spostarle dalla rete alla barca. Ma ho dovuto chiamare rinforzi». Quella volta ce ne vollero tre, di barche, per portare a riva tutto quel pescato. Un'avventura memorabile. Quasi come al tempo in cui, da ragazzino, imparava il mestiere da papà e zii. «Arrivavamo fino a Brenzone o Malcesine, per pescare il carpione. Quello che prendevamo lo consegnavamo ogni giorno a donne e collaboratori familiari che arrivavano via strada con grandi pentole». Un andirivieni che durava anche due settimane. «Tanto di traffico non ce n'era, nemmeno d'estate», sottolinea Monese. E i turisti? «Erano ancora pochissimi, a Navene ricordo ancora uno dei primi campeggi dove soggiornavano i primi tedeschi». E loro, i pescatori, dove dormivano? «Sulla barca, vicino alla riva o sistemata sulla ghiaia. Portavamo le coperte, ci sdraiavamo sopra materassini gonfiabili. E si usavano le vele come tende». Al solo ricordo sorride, Monese. «Era bello. E si dormiva benissimo, sa». Sarà stata la giovane età, ad aiutare. «Può essere», risponde. «In ogni caso, era così. Non c'erano alternative». Adesso è decisamente un'altra cosa. Anzitutto si esce in barca da soli. «Altrimenti non conviene nemmeno, contando quello che raccogli, la concorrenza e la richiesta del mercato», risponde il settantunenne. Non fa più freddo come una volta, d'inverno. «Nevicava spesso, anche se poi quel manto bianco non durava tanto, e ti dovevi coprire più di adesso». Anche l'acqua del lago non è più la stessa. «È più calda, e meno limpida». Di berla come da ragazzo, Monese, ha smesso. Poi non si dorme più fuori. E le reti e l'attrezzatura sono cambiate, molto. «Una volta quasi ogni pesce aveva la sua rete», sottolinea. E poi c'è il capitolo turismo, cresciuto a dismisura nell'arco di pochi decenni. Trasformando i paesi. Cambiando anche le abitudini di chi, al lago, ci vive e lavora da sempre. «Qualche volta ci viene fatto notare che "brente", reti e altro materiale lasciato sulla banchina del porto non dà un bella immagine», sospira Monese. Si sente di troppo? «Mai. Per esperienza dico che i turisti sono incuriositi dal nostro lavoro: non di rado si avvicinano, osservano, fanno domande e scattano fotografie». Bello, ma anche un po' strano, ammette. «Ti fa sentire parte di un mondo che sta scomparendo e a cui si guarda con stupore o nostalgia». La vita del pescatore? «È dura, richiede tanti sacrifici, e forse per questo quasi nessuno è più disposto a farla. Ma le rispondo con un detto, veritiero: "Una gioia e cento dolor"», conclude Monese. Ma è la sua vita. E non la cambierebbe di una virgola, si vede.•.

Camilla Madinelli

Suggerimenti