Lontano dagli affetti ma più che mai «in famiglia. Non trovo parole migliori per raccontare come, dopo la terapia intensiva, sono stato aiutato a riprendere in mano la mia vita. Io, che nei giorni della terapia intensiva mi ero già visto al cimitero, devo dire grazie a chi ha combattuto al mio fianco e mi ha accudito come fossi un suo familiare». È una settimana che Gilberto Speri, 67 anni, è tornato nella sua casa di Monteforte d’Alpone: primi sintomi del Covid 19 il 4 dicembre, tampone positivo l’indomani, terapia di cortisone e antibiotici fino a che, l’11, la situazione precipita. «Ho la febbre alta: il mio medico di base fa uscire l’Unità speciale di continuità assistenziale (Usca) e quando mi vedono i medici, parte la chiamata al 118. Trascorro così 12 ore al pronto soccorso dell’ospedale Fracastoro, la diagnosi: ho la polmonite bilaterale». La situazione sembra migliorare, Speri viene mandato a casa ma la notte è da incubo, la saturazione dell’ossigeno scende ai minimi. L’ambulanza torna l’indomani: «Ho capito quanto era grave la situazione quando mi hanno ricoverato. Tre giorni in pronto soccorso alternando l’ossigeno della maschera a quella del casco Cpap. Poi arriva l’infermiera: ha un telefono in mano», racconta Speri, «mi dice che c’è una possibilità da sfruttare ma passa per l’intubazione. Devo salutare mia moglie». Quello sarà il momento più duro. Olga, a casa, soffoca le urla. Cominciano così quei tre giorni di incubo, «giorni in cui vedo il cimitero del mio paese. Ci sono tutti i miei parenti deceduti in piedi a chiacchierare. Manca la foto dalla tomba di mio zio, ma sento la sua voce che mi chiede che ci faccio lì, mi dice di andare a casa. Poi c’è Anna, la mia nipotina di due anni: mi prende per mano e mi accompagna verso l’uscita. Sul cancello del cimitero sento chiamare il mio nome... ma stavolta la voce è quella del medico che mi sta risvegliando». Prende fiato Speri, gli occhi pieni di lacrime, la nipotina stretta a sé, moglie e figlia che rivivono quei giorni di notizie con il contagocce, di una paura da togliere il fiato. «Ero vivo ma capivo che intorno a me c’era anche chi non ce la faceva ed è stato terribile. La rinascita», racconta, «è iniziata dopo. Da Natale a Capodanno sono stato in area Covid, poi in ospedale di comunità fino al 15 gennaio: ho testato con mano, ho respirato, un’umanità e una dedizione incredibile». «Non era facile riprendersi dopo un’esperienza così», dice Gilberto Speri, «ma ho capito che non combattevo da solo. Avevo a fianco persone presenti 24 ore su 24, attente, appassionate: sentirsi chiamare per nome, cogliere le carezze, ricevere quelle attenzioni che salvaguardano la dignità della persona». «Si sono preoccupati di farmi la barba, di lavarmi i capelli, di tenere in ordine le mani: sono ripartito da lì, da queste persone che, assieme alla mia famiglia, voglio ringraziare», aggiunge, «le stesse che il 16 gennaio mi hanno applaudito mentre uscivo dall’ospedale e che quando hanno saputo che sono la voce storica del gruppo delle Lanterne...erano pronte a cantare con me!». •