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Uno studio dettagliato

Pfas, i fiumi
saranno inquinati
per altri 50 anni

Uno studio dettagliato
Prelievo di terreno sull’argine di un fiume nel Veneto e inquinato da Pfas
Prelievo di terreno sull’argine di un fiume nel Veneto e inquinato da Pfas
Prelievo di terreno sull’argine di un fiume nel Veneto e inquinato da Pfas
Prelievo di terreno sull’argine di un fiume nel Veneto e inquinato da Pfas

I fiumi che attraversano il territorio contaminato dai Pfas resteranno inquinati ancora per almeno mezzo secolo. A fare questa previsione è Nicola Dell’Acqua, commissario per nomina governativa all’emergenza Pfas, attuale dirigente dell’area Tutela e sviluppo del territorio della Regione. La sua ammissione arriva dopo la pubblicazione dell’Arpav del «monitoraggio delle sostanze perfluoro-alchiliche nelle acque superficiali del Veneto» nel periodo compreso fra il 2013, anno nel quale per la prima volta si è sentito parlare dell’inquinamento da Pfas, ed il 2018.

 

Un’analisi che, al momento, è la più completa fra quelle disponibili. Lo studio dice che «i bacini idrografici maggiormente interessati dalla presenza di Pfas in concentrazioni superiori agli standard di qualità sono il Fratta-Gorzone ed il Bacchiglione». Certo, i Pfas di vecchia generazione (Pfos e Pfoa) si trovano in quasi tutti i corsi d’acqua della regione, dai canali del bacino scolante della laguna di Venezia al bacino del Brenta, al Canalbianco, che attraversa il basso Veronese, sino a Livenza, Po e Sile. Persino, anche se solo occasionalmente, nell’Adige.

 

I dati più eclatanti, però, riguardano i fiumi che attraversano la zona rossa, area maggiormente esposta alla contaminazione ambientale da sostanze perfluoro-alchiliche, soprattutto a causa della presenza dei Pfas nelle acque sotterranee. Il Bacchiglione, che da Vicenza arriva nel Padovano, e i corsi d’acqua del suo bacino, come il Bisatto e, soprattutto, il Retrone, mostrano livelli di Pfos e Pfoa rilevanti. Secondo i calcoli dell’Arpav, trasportano ben 45 chilogrammi l’anno di Pfas.

 

Un’analoga situazione viene registrata nel Fratta-Gorzone, che arriva dal Vicentino, attraversa il Colognese e poi prosegue la sua corsa nella Bassa patavina, e nel Guà, che segue un percorso ad esso simile. Il Fratta-Gorzone, peraltro, riceve a Cologna gli scarichi finali del collettore Arica. Questa infrastruttura, meglio conosciuta come il tubo, è stata realizzata con lo scopo di preservare dagli inquinamenti le falde idriche. Quelle stesse falde, da cui pescano gli acquedotti della zona rossa, che, invece, sono piene di Pfas. Il tubo scarica a Cologna le acque reflue dei depuratori vicentini di Arzignano, Montecchio, Montebello, Trissino e Lonigo. Lo sbocco attualmente contribuisce per circa un quarto alla presenza dei Pfas nel fiume e risulta contenere una presenza di sostanze perfluoro-alchiliche che è in diminuzione tendenziale a partire dal 2013.

 

Tra il 2017 ed il 2018, però, era stata registrata una temporanea inversione di tendenza. «I risultati raccolti da Arpav confermano che, purtroppo, l’inquinamento da Pfas che si registra nelle acque superficiali è dovuto alla contaminazione dei giacimenti sotterranei; un problema che non è al momento risolvibile», afferma Dell’Acqua. Sotto alla zona rossa c’è una delle falde idriche più grandi d’Europa. Una risorsa enorme, ma che è così tanto inquinata da non poter essere al momento bonificabile. Da qui, l’acqua drena in superficie, e questo fa sì che i fiumi finiscano per essere a loro volta contaminati in maniera così forte che le previsioni di miglioramento si devono calcolare in varie decine d’anni.

 

«La prima cosa da fare è regolare la presenza dei Pfas nelle acque, perché da questo discendono maggiore attenzione nella fase produttiva e conseguente riduzione della loro presenza nelle acque e nell’ambiente», afferma Dell’Acqua. Se si dice che servono cinquant’anni per ripulire i corsi d’acqua, è impossibile prevedere quanto tempo occorrerà per migliorare l’ambiente se non si fermeranno le fonti d’inquinamento.

Luca Fiorin

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