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Monteforte-Caprino

«Mio zio farmacista, fascista, salvò dalla morte una famiglia ebrea»

A sinistra, Filiberto Antonini. A destra, la stele all’ingresso del Giardino dei Giusti dello Yad Vashem e il memoriale dell'olocausto di Gerusalemme
A sinistra, Filiberto Antonini. A destra, la stele all’ingresso del Giardino dei Giusti dello Yad Vashem e il memoriale dell'olocausto di Gerusalemme
A sinistra, Filiberto Antonini. A destra, la stele all’ingresso del Giardino dei Giusti dello Yad Vashem e il memoriale dell'olocausto di Gerusalemme
A sinistra, Filiberto Antonini. A destra, la stele all’ingresso del Giardino dei Giusti dello Yad Vashem e il memoriale dell'olocausto di Gerusalemme

Anche Monteforte d'Alpone ha il suo aspirante Giusto tra le Nazioni: la vicenda umana di Filiberto Ambrosini, che era nato in paese il 22 giugno 1894, è più nota a Caprino Veronese che nella sua terra ma ora il nipote Bruno Zanetti, generale della Guardia di finanza in pensione, vuole che sia assolutamente nota anche ai montefortiani.

«Coi miei 84 anni questo peso me lo porto addosso», esordisce, «e non potrò darmi pace fino a quando tutti sapranno la vera storia di mio zio». La storia è quella di un farmacista che tra il novembre del 1944 e l’aprile del 1945, in virtù di una cartolina precetto, passa dall'essere il dottor Ambrosini all'essere il capitano Ambrosini, comandante di plotone delle Brigate Nere di Caprino dove è trasferito dal 1938. Bruno, fino all'età adulta, solo questo sapeva dello zio ed era abbastanza per nutrire odio verso un congiunto ritenuto responsabile dell'arresto e della deportazione di suo padre Umberto, maresciallo dei carabinieri: poi c'è stata la rivelazione, quella di una ebrea di Fiume che, quattordicenne all'epoca dei fatti, prima scrisse nero su bianco quello che Ambrosini rappresentò per la sua famiglia, poi ne trasse un piccolo e introvabile libro per firmare poi, nel 2007, la candidatura del farmacista montefortiano nell'elenco dei Giusti tra le Nazioni.

Questa donna si chiama Rosemarie Benedict e prima di lui fu suo padre Francesco a testimoniare, con una lettera destinata alla famiglia di Ambrosini, come la sua famiglia si salvò grazie al coraggio del farmacista. «Tutto era cominciato a Fiume, nel 1940, dove Filiberto Ambrosini, capitano del Corpo di Sanità, viene destinato alla supervisione e controllo dei magazzini medici militari sul fronte slavo. Sceglie volontariamente di essere ospitato dalla famiglia Benedict, assicurando loro protezione, e l'amicizia nasce così», racconta il generale.

La famiglia ebrea è sotto continua minaccia, arriva una prima volta a Caprino alla fine del 1941, poi rientra a Fiume ma dopo l'8 settembre 1943 si ritrova in pericolo: Ambrosini, che si era congedato ad agosto, dopo un rischiosissimo viaggio a Fiume, organizza il loro trasferimento a Caprino impegnandosi, con la moglie Nerina Zanetti, ad offrire loro rifugio e protezione. Già così era di per sé rischioso, immaginiamo cosa sarebbe potuto accadere dopo quel cambio di status imposto dalla cartolina precetto. Il farmacista invece, come scrisse nel giugno del 1945 l'ingegner Benedict, «esponendosi a un rischio enorme, agì in modo da eludere ogni minima traccia che sarebbe bastata a farci cadere tra le sgrinfie dei nostri persecutori (...) organizzando alla fine la nostra fuga. (...). Anche se è stato così cieco da aderire a quel marciume che era il fascismo, il suo retto e solidale modo di agire devono certo far dimenticare e perdonare la qualifica di fascista, non degna di un gentiluomo leale come lui».

Il generale frena la commozione: «Ecco chi era mio zio, e la sua eroicità non fu solo per quella famiglia: vorrei davvero venire a Monteforte accendere la Memoria su questo montefortiano», conclude, «spero davvero le limitazioni imposte dalla pandemia mi concedano questa possibilità perché io non so quanto tempo, ancora, mi sarà dato. Ho giurato di fare tutto ciò che posso perché a mio zio sia riconosciuto il rispetto e la gratitudine che merita».

Esattamente dieci anni fa, per questo, ha inoltrato un corposo e documentatissimo dossier allo Yad Vashem che, sebbene supportato dal Rabbino capo di Padova, Adolfo Locci, non ha però portato il risultato atteso. 

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