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Marcellise

Lo stop del vescovo: è l’ultima messa di don Paolo Pasetto

Don Paolo Pasetto
Don Paolo Pasetto
Don Paolo Pasetto
Don Paolo Pasetto

Questa sera (sabato 14 novembre) alle 18.30 la chiesa di Marcellise dedicata a San Pietro in cattedra vedrà l’ultima messa di don Paolo Pasetto. Il sacerdote, che era presente dal 2012 come amministratore della parrocchia inserita nell’unità pastorale di San Martino Buon Albergo, già da un anno non aveva più questo incarico, ma il vescovo monsignor Giuseppe Zenti aveva consentito che continuasse a seguire la casa di accoglienza, nata nella canonica della frazione grazie al forte coinvolgimento dei laici della parrocchia.

 

La messa del sabato sera era il cardine della comunità, punto d’incontro e di confronto, porta aperta anche a tanti fedeli che arrivavano da altre parrocchie della provincia scaligera. Ma da oggi non più, per espressa volontà del vescovo che ha imposto a don Paolo di celebrare privatamente «tra i suoi», intesi come derelitti, sbandati, drogati, emigrati, prostitute, senzatetto, cioè i poveri, storpi, ciechi e zoppi di cui parla la parabola, invitati a prendere il posto di chi era troppo affaccendato per accogliere la gratuità del dono.

 

Perché un provvedimento così punitivo? Don Paolo, barba e capelli profetici, sandali ai piedi e l’attenzione agli ultimi come missione, è un prete di frontiera, in cui la sostanza del messaggio evangelico prevale sempre sulla forma del rito. Le sue celebrazioni, sempre partecipate e aperte, sono fatte per coinvolgere, non per escludere, dettate da quell’urgenza evangelica che risponde al comando di Gesù di invitare gli ultimi alla propria mensa. La sua prima parrocchia è stata anche un esperimento riuscito in questi anni di come potrebbe essere una Chiesa viva, che non condanna ma invita: «Ti fermi a cena stasera?», è anche il titolo del libro, lavoro di scrittura collettiva come lettera alla Chiesa di Verona, dalla comunità parrocchiale di Marcellise.

 

DUE ANNI FA c’era stato lo scandalo del veglione di capodanno celebrato in chiesa, una tradizione che durava da cinque anni, con cena condivisa, festa e momento di preghiera e riflessione. Poi tante piccole, grandi cose «che non vanno», dall’altare fra la gente per una liturgia veramente partecipata, alle formule sacramentali non sempre per filo e per segno come sono scritte, alla partecipazione dei laici al commento della Parola. Insomma una preoccupazione che vorrebbe salvare la forma del diritto canonico e far naufragare la sostanza di un’esperienza che in diocesi è finora unica, cioè di una comunità che si coinvolge, usa la canonica come casa di accoglienza, l’eucarestia per quello che è, rendimento di grazie, invece che una vuota sequela di formule e riti.

 

La comunità di Marcellise, ancor prima dell’arrivo di don Paolo, era stata coinvolta in progetti di partecipazione ed ecumenismo. «L’accoglienza è cominciata con una persona malata che non poteva stare in carcere», racconta Anna, una delle parrocchiane coinvolte direttamente nella gestione della canonica, «proseguita poi con l’arrivo dalla strada di Joy, ragazza nigeriana e di sua figlia Vicy di pochi mesi; di Alem, ragazza etiope arrivata con i barconi e con Munira, la sua bambina; di Saverio, senzatetto e accolto con un tumore, accompagnato fino alla fine dei suoi giorni, perché accogliere non è solo dare un letto e un piatto, ma farsi carico anche della fatica delle persone, che diventa fatica di tutti». In otto anni sono passate una quarantina di persone dalla canonica di Marcellise: sei parrocchiani seguono direttamente la gestione, ma fanno i turni con molti altri, perché sono tutti madri e padri di famiglia, con un lavoro, figli e genitori anziani.

 

«Per noi la partenza di don Paolo è un turbamento», dice Anna, per come è stato trattato lui e questa nostra esperienza. Noi proseguiremo, sia per le otto persone che vivono qui, sia per le prossime che saranno accolte», afferma convinta. Don Paolo continuerà a seguire le comunità di accoglienza a Fittà di Soave e Colognola ai Colli, la onlus Sulle orme, la cooperativa Multiforme che impegna gli ospiti nel laboratorio di marmellate, bomboniere e falegnameria e che sta alla base del progetto della trattoria sociale «Cinque pani e due pesci» l’ultima nata assieme alla Cascina Albaterra per un’agricoltura rispettosa delle persone e del creato.

 

NON VUOLE entrare in polemica con il suo vescovo. L’unica dichiarazione è una dichiarazione d’amore per la Chiesa: «Mi sono innamorato anche di te, cara mia Chiesa, schiava del potere, dei privilegi della casta, venduta quanto basta, arricchita e disillusa, organizzata e frastornata... mi sono innamorato ed è solo per questo motivo che ti ho seguita».

Vittorio Zambaldo

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