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Il racconto di un ricoverato per Covid

«Non c'erano letti, ho passato nove giorni al Pronto soccorso»

di Paola Dalli Cani
Un paziente con la Cpap, la maschera per la ventilazione respiratoria
Un paziente con la Cpap, la maschera per la ventilazione respiratoria
Un paziente con la Cpap, la maschera per la ventilazione respiratoria
Un paziente con la Cpap, la maschera per la ventilazione respiratoria

Nove giorni al Pronto soccorso per combattere la sua battaglia contro il Covid-19: li racconta Mario B., che ha 75 anni, abita in Val d'Alpone, e domani festeggia il suo primo mese di ritorno alla vita. «Avevo lasciato casa mia la mattina del 6 novembre, con difficoltà respiratorie, febbre alta da quattro giorni e la tosse. Da tempo che cercavo di stare in casa il più possibile, ancora non so come me lo sono preso, ma quella mattina è dovuta arrivare l'ambulanza», racconta l’anziano. Il tempo di raggiungere San Bonifacio e si ritrova «su una sedia, in una sala ampia del pronto soccorso dell'ospedale Fracastoro.

 

Prelievo, flebo, tampone: lì ci sono rimasto fino alla sera in mezzo ad un cantiere impressionante». Erano i giorni in cui l'avamposto medico liberava ogni spazio possibile per far posto ai pazienti Covid-19, «un lavoro incredibile che faceva percepire chiarissimamente la gravità dell'emergenza».

 

Quello di Mario è uno dei Covid-19 che si sono fermati al pronto soccorso perché di letti per polmonite da Covid-19 non c'erano: accadeva un mese fa e se oggi racconta la sua storia è perché, da quanto ne sa, la situazione si sta ripetendo. «C'è ancora gente convinta che il virus non esista, ma quando dalla sedia mi hanno accompagnato verso una porta su cui c'era scritto isolamento, ho sentito la terra mancarmi sotto i piedi: due dei tre letti erano occupati», dice Mario, «non sapevo che uno di noi tre non ce l'avrebbe fatta». 

 

A Mario va il letto vicino la finestra, «ho passato otto notti in bianco e nove giorni a guardar dondolare la punta degli alberi», e gli mettono subito il casco Cpap: «Vedevo tutto annebbiato, era impossibile riuscire a scrivere un messaggio con il cellulare, telefonare. Pensavo a mia moglie, ai nipotini, al fatto che a 75 anni probabilmente dovevo far pace con l'idea di non rivederli più. Arrivi a un momento in cui non capisci se ne uscirai o no. E intanto attorno a me si muovevano medici, infermieri, operatori sanitari: mi hanno trattato come fossi il loro nonno». Se Mario la sua battaglia la combatteva in ospedale, la moglie lo faceva da casa: solo il bollettino due volte al giorno, senza poter sentire o vedere il marito, nemmeno al telefono. Per tre giorni prima si sente chiedere come stia lei e poi solo una frase: «Stabile, ma può peggiorare in ogni momento».

CI RIESCE SOLO al quarto giorno: «Mi dicevano che stavo migliorando», prosegue Mario, «che ce l'avrei fatta. Al quarto giorno una maschera con un tubo (maschera con reservoir, ndr) sostituisce il casco. Vede? Questo è il selfie che le ho mandato», dice mostrando il cellulare. Inizia così lo svezzamento verso la respirazione autonoma, «che coincide con il trasferimento in una stanza da quattro letti. C'era anche un mio compaesano, pareva di essere in guerra... e poi.. lui non ce l'ha fatta». Mario sì, ed avviandosi verso la fine dell'incubo passa dalla maschera alle cannule endonasali: «Il 14 mi dicono che posso tornare a casa a patto che sia rigoroso e resti separato da mia moglie: nel frattempo anche lei si è positivizzata ma fa lo stesso, l'importante è tornare a casa». Alle 17.30 la moglie riceve la telefonata di avviso dimissioni ma anche la richiesta di reperire una bombola di ossigeno: in farmacia nemmeno l'ombra ma la donna non ha il tempo di disperarsi perché dal Pronto soccorso la richiamano informandola che Mario partirà non appena ci sarà un'ambulanza disponibile e arriverà con l'ossigeno. «Questo ricordo di quei giorni», racconta Mario, «il controllo maniacale dell'ossigeno disponibile in Pronto soccorso, della disponibilità di bombole, una vera caccia al tesoro».

L'ambulanza arriva davanti a casa sua che sono le 20: «Avevo sei chili in meno di nove giorni prima, ma ero a casa. La mia gratitudine non trova parole adeguate per essere espresse ed è enorme ma mi chiedo: possibile che in un ospedale così grande non ci siano spazi, che un' emergenza così debba essere gestita al Pronto soccorso dove arrivano anche persone che col Covid-19 non c'entrano nulla? Spero davvero si trovino soluzioni», conclude, «non solo per il bene dei pazienti ma anche di chi lavora qui: sono persone straordinarie, ma sono persone, non supereroi».

 

 

 

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