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Export fermo e prezzi in calo Le ciliegie finiscono nel vajo

Le ciliegie buttate nel vajo
Le ciliegie buttate nel vajo
Le ciliegie buttate nel vajo
Le ciliegie buttate nel vajo

Un paio di quintali di ciliegie sane e mature, pronte per la commercializzazione, sono state buttate in un vajo in località Castello di San Giovanni Ilarione. L’episodio qui riportato ripete quanto successe l’anno scorso, quando vennero scaricate quattro-cinque quintali di ciliegie da un ponticello nell’ultimo tratto della Valle dei Molini di Castelvero di Vestenanova in un piccolo torrente affluente dell’Alpone. Sembra ormai la soluzione più sbrigativa per liberarsi di un carico invenduto, ma il gesto ha conseguenze pesanti per tutti i coltivatori che compiono coscienziosamente il proprio lavoro. La frutta abbandonata a marcire al limitare di un’area boscosa, come in questo caso, diventa focolaio incontrollato della micidiale Drosophila Suzukii, l’insetto che attacca i frutti maturi sugli alberi e li rende invendibili non solo come prodotto fresco, ma anche per l’industria di trasformazione. La Drosophila ama infatti le zone ombreggiate e umide del bosco, dove di solito si insedia e poi esce in fase adulta per deporre le proprie uova nei succulenti frutti rossi, lasciando in eredità marciume e decadimento delle ciliegie. Il ritrovamento è opera di Gianluca Lovato che denuncia l’episodio «perché danneggia tutti i coltivatori già impegnati in una lotta quotidiana per il contenimento dell’insetto nocivo, costringendoli a un surplus di costosi trattamenti per sconfiggere il suo proliferare». Difficile spiegare cosa ci sia a monte di questo comportamento, se non leggendo la crisi del mercato in questo momento. Sono infatti in raccolta le primizie, di solito destinate all’esportazione, ma quest’anno, a frontiere chiuse per l’emergenza Covid-19 e a consumatori sospettosi per tutto quanto arriva da fuori confine, anche se non ha nessuna implicazione con il virus, tutto diventa più difficile e convincere i consumatori è uno sforzo immane. Tutto deve quindi rivolgersi al mercato interno, dove in questo momento non c’è sufficiente interesse. Questo, unito al fatto che in Italia hanno invece libero accesso ciliegie d’importazione dalla Turchia, di buon livello e qualità, a prezzo decisamente più competitivo, determina il deprezzamento del prodotto nostrano. In questi giorni si parla di prezzi che vanno dai 20 ai 30 centesimi al chilogrammo pagati dal grossista, cifre da prendere o lasciare senza troppe discussioni. Chi non accetta è invitato a riportarsi a casa il prodotto e qualcuno fino a casa non ci arriva e lo scarica per rabbia o delusione, dove non dovrebbe. Il libero mercato ha leggi spietate: il prezzo lo fanno i grandi distributori che possono permettersi di pagare con ritardi inaccettabili che vanno da pochi giorni a quattro mesi, quando non si finisce in mani sbagliate e non si ha speranza di essere pagati mai. È un bel dire di conservare la biodiversità e le caratteristiche del paesaggio rurale che in alcuni rari esempi si è salvato dalla monocoltura della vite, ma se queste sono le prospettive, come si possono colpevolizzare agricoltori che tagliano ciliegi e olivi per far posto alle vigne?. •

Vittorio Zambaldo

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