Era partito tre anni fa per il Mozambico e a 29 anni l’illasiano don Francesco Castagna era il più giovane sacerdote missionario italiano Donum Fidei. È stato destinato alla parrocchia di Namahaca, che cura una settantina di cappelle sparse su 1.500 chilometri quadrati in altrettanti villaggi, a una trentina di chilometri dalla costa e dove metà dei 2,7 milioni di abitanti è cristiana, l’altra metà animista e con una piccola percentuale di musulmani all’interno della diocesi di Nacala, vasta quanto il Triveneto. Ci lavora con altri 38 sacerdoti a ognuno dei quali sono affidate 30mila anime. Su di lui e sull’altro sacerdote veronese, don Manuele Modena, fanno affidamento 71 comunità ognuna con una struttura ben precisa, retta da un anziano con un catechista che si occupa dei giovani e un altro degli adulti. «Il lavoro non manca perché in sei anni più di 5mila adulti hanno chiesto di ricevere il battesimo e stanno seguendo il percorso di catecumenato», spiega don Francesco, che si occupa in particolare anche degli incontri di formazione che durano 2-3 giorni e sono rivolti ogni volta a un’ottantina di catechisti inviati dalle comunità. Il paese è poverissimo, indipendente dal Portogallo solo dal 1975 e fino al 1992 è stato teatro di una sanguinosa guerra civile, e anche per questo è al 177° posto al mondo su 187 Paesi per indice di sviluppo umano. Con due suore brasiliane segue il centro nutrizionale per mamme e neonati: aiuta i bambini denutriti a uscire dalla soglia di pericolo, con la consegna di latte in polvere e l’istruzione alle giovani mamme, a volte appena quindicenni, di cosa debbano fare a casa loro per arricchire il pasto dei neonati. «Nello studentato accanto alla missione accogliamo tante ragazze, alcune anche musulmane, e chiediamo alle famiglie di impegnarsi a permettere che le ragazze studino anche oltre la scuola media perché altrimenti il loro destino, finita la scuola, è sempre quello del matrimonio precoce», riferisce. Un altro problema che affligge la regione è quello della forte immigrazione di persone impegnate nella ricerca dell’oro, con immaginabili problemi di tipo sanitario (c’è stata anche un’epidemia di colera) e sociale. Ma non è tutto negativo e don Francesco, nella presentazione del suo tempo missionario ai compaesani ha voluto sottolineare la bellezza di vivere tra un popolo, i Makua, orgoglioso della propria storia, anche se ancora umiliato e sfruttato, con tanti aspetti difficili da accettare, come i matrimoni prematuri, l’istruzione carente, la mancanza di medicine, la denutrizione, l’accesso difficile all’acqua potabile, la politica corrotta e le infrastrutture quasi inesistenti. «Stando con loro ho imparato l’essenzialità, che non è povertà, ma la riscoperta di poter vivere ogni giorno con poco nella fatica; ho scoperto la gioia di famiglie numerose perché ogni donna ha in media almeno cinque figli e sono famiglie dove predomina la gioia di cristiani veri». «Sono felice di essere in missione, anche se l’aspetto sanitario è stato il più problematico; la vita media della popolazione è di 55 anni, perché tutti mangiano poco, ci sono tante malattie, imperversa la malaria. Io stesso, nei primi cinque mesi di missione ho preso quattro tipi diversi di malaria. Il 20% della popolazione è sieropositiva e rischia di sviluppare l’Aids. Ma nessuno di loro si sente solo e nella fatica tutti manifestano speranza e mi vogliono bene», conclude don Francesco. Anche il paese che ha lasciato lo segue con passione: nella cena di solidarietà che il Gruppo Alpini ha organizzato per sostenere la missione hanno partecipato oltre 200 persone e sono state raccolte offerte per 3.600 euro. •