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«Baby gang, non date la colpa al Covid»

L’incontro  Il tavolo dei relatori chiamati a parlare di baby gang FOTO DIENNEFOTO
L’incontro Il tavolo dei relatori chiamati a parlare di baby gang FOTO DIENNEFOTO
L’incontro  Il tavolo dei relatori chiamati a parlare di baby gang FOTO DIENNEFOTO
L’incontro Il tavolo dei relatori chiamati a parlare di baby gang FOTO DIENNEFOTO

Né più violenti, né più numerosi ma semplicemente imprigionati, dalla rete, in un eterno presente. «I conflitti tra pari, più o meno violenti, ci sono sempre stati ma ogni fatto aveva un inizio e una fine: oggi, invece, il pre, il durante e il dopo è tutto presente». Ne è convinto Giacomo Pelosato, criminologo clinico specialista in psicologia investigativa e psicopedagogia forense socio fondatore di Contras-Ti-Coordinamento nazionale trattamento e ricerca sull’aggressione sessuale e referente Triveneto del Cipm- Centro italiano promozione della mediazione. Pelosato sabato pomeriggio è stato invitato dal circolo San Bonifacio domani, coordinato da Fulvio Soave, ad affrontare il tema del disagio giovanile e delle baby gang. Un fenomeno che pare essere esploso come conseguenza dell’esperienza di reclusione data dal Covid. Ma il criminologo afferma: «Il Covid non c’entra, ha solo amplificato la possibilità di portare a galla un fenomeno che poggia sull’analfabetismo degli adulti che si traduce nella mancanza di strumenti utili ai ragazzi». Quindi Pelosato ha tracciato l’identikit delle baby gang: ce ne sono di organizzate, dove comanda un capo carismatico che affida il lavoro sporco a manovali sempre più giovani, quelle non organizzate che hanno condotte meno gravi e sono attive per lo più nelle periferie e quelle fluide, in cui è leader il più vecchio, la composizione del gruppo è più variabile e ci si limita ai danneggiamenti. Vengono definite «baby» perché a questi gruppi, nel 90% dei casi vere organizzazioni, fanno riferimento ragazzini dai 14 ai 19-23 anni massimo. «Danneggiamenti e furti per i maschi, rapina e violenza per conseguire obiettivi materiali per le femmine: è un fenomeno trasversale», ha spiegato Pelosato, «che coinvolge stranieri di seconda generazione e italiani quasi con identica proporzione e che non necessariamente nasce in contesti di povertà e difficoltà sociale, condizioni facilitanti se c’è inclinazione». Pelosato nel suo studio segue 50 persone che non hanno messo in atto recidive: 10 del gruppo di partenza hanno interrotto il trattamento. «Al riconoscimento di aver sbagliato si arriva con fatica, dopo un percorso di 2-3 anni. Il problema più serio è a monte perché sono troppo pochi i ragazzi che arrivano in trattamento, troppo pochi quelli di cui si accorgono le famiglie e la scuola». Sono e si sentono soli i ragazzi, invisibili, «spesso la baby gang ha la funzione di riempire il vuoto affettivo», ha detto il criminologo, «accorgersi dei figli è già prevenzione». Non un intervento a gamba tesa sulle famiglie ma una sorta di appello che parte dalla presa d’atto di una solitudine che accomuna genitori e figli. All’incontro è intervenuta l’assessore regionale all’Istruzione, formazione e lavoro Elena Donazzan: «Uno scenario diverso, problemi e pericoli nuovi per i quali mettere in campo nuovi interventi e soluzioni, nuove competenze e strumenti sia per la famiglia, primo attore in campo, che per la scuola». «Serve», ha aggiunto Donazzan, «che le istituzioni tornino ad essere tali, con l’esempio e il giudizio, con l’autorevolezza e l’autorità perché il problema è anche la mancanza di riferimenti certi e dove tutto è sfumato ci si disorienta». Serve mettere in campo un nuovo alleato e riscoprirsi «comunità educante». •.

Paola Dalli Cani

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