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Antonio, carne da lavoro 73.527 nei campi nazisti

L’ex deportato Antonio Ferrarese:  ad agosto compirà 103 anni FOTO DIENNEIl monumento di Balconi di Pescantina agli ex internati
L’ex deportato Antonio Ferrarese: ad agosto compirà 103 anni FOTO DIENNEIl monumento di Balconi di Pescantina agli ex internati
L’ex deportato Antonio Ferrarese:  ad agosto compirà 103 anni FOTO DIENNEIl monumento di Balconi di Pescantina agli ex internati
L’ex deportato Antonio Ferrarese: ad agosto compirà 103 anni FOTO DIENNEIl monumento di Balconi di Pescantina agli ex internati

Quarantasette chili con addosso la divisa dell’esercito russo: così Antonio Ferrarese, dopo 6 anni, 3 mesi e 3 giorni dalla sua partenza per la leva, riabbracciava la mamma Carolina. Il 14 agosto, Antonio Ferrarese, che a San Bonifacio rappresenta la storia dell’Associazione combattenti e reduci, che ha fondato nel 1946 e guidato fino al 2019, compirà 103 anni. Ha annotato negli anni date e fatti, li ha raccontati alle nipoti Nadia Ferrarese e Giulia Corolaita, ne ha parlato a tante classi di studenti. «È importante ricordare, soprattutto le “zebre”, i prigionieri ebrei. Al campo di Ratisbona venivano chiamati così per i pigiami a righe che portavano. Noi esistevamo solo in quanto materiale da lavoro e si camminava appoggiandosi l’un l’altro perché non ci si reggeva in piedi. Si sentiva dire di orrori indicibili, di forni crematori in campi non lontani da lì: ci dicevamo che era impossibile». Mamma Carolina l’aveva salutata la domenica delle Palme del 1939, il 2 aprile. Ferrarese era atteso al Distretto militare di Verona dove gli venne data la sua prima destinazione, Saluzzo, aggregato al 44° Reggimento di fanteria come Guardia di frontiere (Gaf). Ci passò quasi quattro anni, sui monti, a fare il furiere. Piemonte e Francia: la notizia dell’armistizio lo raggiunge a Lantosque. Il rientro in Patria scattò per lui all’indomani del 14 settembre, nella deserta stazione ferroviaria di Cuneo dove salì sul treno che, pensava, lo avrebbe riportato a casa. Alle 10, però, il treno, zeppo di militari italiani, venne circondato da SS e fascisti: scesero tutti e raggiunsero la caserma della Cuneense. Nel pomeriggio, alcuni ufficiali della Milizia fascista proposero loro l’arruolamento: «Eravamo in 1500, aderirono in 15», racconta. Stessa scena quattro giorni dopo, ma a Norimberga: il treno merci in cui a Cuneo vengono caricati a decine senza che mai, per giorni, le porte si aprissero, si fermò infatti in Germania. «L’invito ad aderire alla Repubblica sociale e rientrare subito in Italia, venne ribadito davanti ai 7-8 mila che eravamo: si staccò solo l’1-2 per cento. Non sapevo che stavo andando incontro ad un destino di umiliazione, fame, freddo e bombardamenti, ma dissi di no: ero stanco della guerra ma non volevo tradire né il giuramento al Re né la Patria per la quale tanto avevo combattuto», racconta. Quello stesso giorno, il ventiquattrenne smise di chiamarsi Antonio Ferrarese e divenne il numero 73527 di un esercito di deportati lavoratori, costituito dagli Internati militari italiani (Imi). «Lo zuccherificio di Ratisbona prima, la fabbrica degli aerei Messerschmitt poi, mangiando rape a pranzo e cena. I bombardamenti erano pressoché quotidiani. Uno di questi distrusse il campo e ci trasferirono in un paesino: andavamo a lavorare facendo 6 chilometri all’andata e altrettanti al ritorno e attraversando il Danubio. Avevamo chiamato Caronte l’addetto al traghetto che accompagnava le nostre anime all’inferno quotidiano». La presa sul campo e sui prigionieri cominciò ad allentarsi: «Scappare? Non sapevamo una parola di tedesco, era impossibile. Quella maggiore libertà servì a far scorta di patate da nascondere in baracca e cuocere sulle stufe a ghisa», dice Ferrarese. Il 25 luglio gli diedero una divisa di un prigioniero russo ucciso, dopo che un bombardamento aveva lasciato tutti con ciò che avevano addosso in quel momento. Ferrarese la indossava ancora il 26 aprile del 1945, quando gli americani arrivarono a Ratisbona. «Ci rifocillarono ed il giorno dopo ci portarono in periferia, in un campo dov’erano riuniti tutti i prigionieri per organizzare i rimpatri. Ci concessero due giorni per sfogare il nostro rancore contro i tedeschi ma ci bastò vedere la devastazione lasciata dai prigionieri russi per lasciar perdere: poi vedemmo i soldati tedeschi che ci avevano fatto prigionieri sgombrare le strade dalle macerie al posto nostro». Il treno che lo riporterà in patria partirà dalla Germania il 4 luglio: l’arrivo a Verona attorno alle 22, quindi a piedi fino a casa della sorella, a San Martino Buon Albergo. La mattina si rimise in viaggio per riabbracciare la mamma: un bagno caldo e quella divisa affidata al fuoco, scarpe comprese. •

Paola Dalli Cani

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