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In aula con la crisi

La scuola e il risparmio: i dirigenti bocciano l’ipotesi della settimana corta

Studenti in aula durante una lezione
Studenti in aula durante una lezione
Studenti in aula durante una lezione
Studenti in aula durante una lezione

L’emergenza è una per tutti. La didattica no. Licei ed istituti tecnici e professionali scandiscono il tempo su orologi diversi. L’ipotesi di contrazione della settimana di lezioni, da sei a cinque giorni, avanzata dal vicepresidente della Provincia, David Di Michele, trova i presidi sostanzialmente concordi sull’intenzione e per l’incalzare dell’emergenza energetica. Non altrettanto sull’effettiva praticabilità di tale soluzione, a soli circa 15 giorni dal primo ingresso in aula per l’anno scolastico 2022-2023. Anche se le bollette lievitate di circa il 60 per cento pesano, eccome, sui bilanci. Ma il calendario mostra un 12 settembre ormai vicinissimo.

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«Se dipendesse da me, come cittadina, accetterei senza esitazione, soprattutto per una questione etica e di sostenibilità», premette Sara Agostini, dirigente del «Copernico - Pasoli» (istituto tecnico e liceo) e del «Sammicheli» (professionale). «Ma bisogna tenere conto», osserva, «delle famiglie, che pure in molte chiedono la “settimana corta“, istanza che solo dieci anni era perlomeno infrequente. La nostra offerta è però già tarata sui sei giorni, l’orario è definito. Certo, tutto è possibile ma servirebbe, semmai, una decisione generale, dall’alto. E soprattutto con qualche forma di aiuto, perché ormai le lezioni sui sei giorni vengono date per scontate, da genitori e studenti».

Sette o cinque giorni? «L’emergenza ripropone un tema già trattato più volte. Francamente però, per noi, ora è già tardi», premette Roberto Fattore, preside del liceo «Maffei». Vanno rimessi in gioco gli orari dei docenti ma soprattutto l’organizzazione didattica. «Alcune materie richiedono, per propria natura, una distribuzione più distesa», precisa. Contrarre la settimana potrebbe equivalere al trovarsi con verifiche di latino e greco «da un giorno all’altro»: non propriamente una passeggiata di salute, anche per lo studente più «secchione». «Resta fermo il dovere civico, già sperimentato nell’emergenza Covid con gli ingressi scaglionati. La crisi energetica porterà a scelte inevitabili, temi peraltro già affrontati negli anni. La consapevolezza è indiscussa ma cambiare ora, per la scuola, potrebbe essere un problema», osserva il dirigente scolastico. Come il tenere le finestre aperte, nel rispetto delle «linee guida» di prevenzione sanitaria: anche se l’inverno veronese non somiglia quasi mai a quello di Bressanone o Aosta.

Già, la pandemia: quasi dimenticata, non però dal ministero dell’Istruzione. «Dobbiamo mobilitare l’Arpav (l’Agenzia regionale per la prevenzione ambientale, ndr) per verificare la salubrità dell’aria nelle aule. E spalancare le vetrate durante la ricreazione», conferma Irene Grossi, dirigente dell’Istituto professionale per l’industria e l’artigianato «Giorgi». Quanto alla settimana accorciata «il problema investirebbe soprattutto i molti nostri studenti in arrivo dalla provincia», spiega. Una parte consistente della didattica è affidata alle ore di laboratorio. «Già il finire della lezione alla sesta ora mette alcuni in difficoltà nel rientro a casa. Si tratterebbe, nell’eventualità, di ripensare da zero l’organizzazione, anche per i docenti. Da qui a settembre? Ci sarebbe di che ridere, o piangere». Fatta salva la responsabilità civica «certe scelte dovrebbero essere organizzate».

La settimana corta è già una realtà all’Itis «Marconi». «Siamo partiti nel settembre 2021 ma la decisione, per motivi didattici e sulla scia dell’emergenza Covid (le 48 ore di chiusura erano dedicate alle sanificazioni, ndr), era stata presa un anno prima», chiarisce la dirigente Gabriella Piccoli. «Certo, la scelta dei cinque giorni, fatta propria da molti istituti superiori, consente un risparmio, anche sul piano dei trasporti. Ma va programmata, dev’essere evidente all’atto dell’iscrizione». «Certo, alla necessità ci si adatta», osserva, «ma nella scuola entrano in gioco diversi aspetti». È o non è l’Italia la patria delle emergenze?

Paolo Mozzo

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