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Nuovo tentato omicidio dopo l'assassinio del '99

La madre, le botte, i lavori persi: i buchi neri della vita violenta di Fattorelli

Stefano Fattorelli
Stefano Fattorelli
Stefano Fattorelli
Stefano Fattorelli

«Preferiva mio fratello, io ero troppo vivace e lei non mi sopportava». Forse è davvero racchiusa in questa frase l’origine del buco nero in cui è sprofondato il rapporto di Stefano Fattorelli con le donne. È una frase estrapolata dalla perizia psichiatrica redatta dallo psichiatra Carlo Robotti, all’epoca dirigente del Primo servizio di psichiatria di Borgo Trento e depositata nel 2001 in tribunale. La frase è di Fattorelli ed è rivolta alla madre.

«Qualche volta mi picchiava, e dopo i dieci anni le ho anche risposto con insulti e perfino con spintoni e strattonamenti», disse Fattorelli allo psichiatra che doveva fare la sua perizia incaricato dal Tribunale. E del fratello con cui da giovane non legava: «Era come mia madre, litigavamo sempre». Ma dopo la carcerazione: «È l’unico che si occupa di me e mi viene a trovare». Anche se poi il rapporto era di nuovo naufragato perchè Fattorelli non era gestibile.

Ma chi è Fattorelli? Chi è quest’uomo che ha ucciso una donna e altre due hanno rischiato di essere vittime? Nato a Caprino il dicembre 1971, ha frequentato le scuole a Lazise dove la famiglia si era trasferita. Il padre resta vittima di un’emorragia cerebrale nel 1980. Aveva 49 anni e Stefano, 8. Anche la madre muore quando lui è giovanissimo, nel 1988 a 55 anni, sempre di malattia. Il percorso scolastico del giovane è stato travagliato pur senza problemi di profitto, anche se era costantemente richiamato perchè «molto litigioso con i compagni». Dopo la licenza media inferiore non ha proseguito gli studi: «Mia madre ha continuato a dirmi che ero un fannullone perditempo». E ha così iniziato a lavorare a 14 anni. Dopo tre giorni come magazziniere a Bussolengo ha un grave incidente in motorino e resta in coma 20 giorni. Riprende il lavoro in maniera irregolare e lo licenziano. Prova a iscriversi a ragioneria, ma lo bocciano. Da adolescente ha fatto abuso di alcol e antidepressivi, diventato uomo ha finito per uccidere, maltrattare e perseguitare le donne con cui ha avuto relazioni. Tra loro anche un’operatrice del carcere di Padova che si era innamorata di lui, ma poi lo ha denunciato per stalking. E forse così si è salvata.

 

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Anche la storia lavorativa di Fattorelli è fatta di alti e bassi. Operaio lasciato a casa da aziende che non lo hanno pagato, ma anche sbandato che dorme in macchina perchè tutti gli «erano ostili» e perchè litigioso. Lavora come pizzaiolo, ma poi litiga con il proprietario, lavora come commesso ad Affi (nel 1995), ma litiga e se ne va. Fuma qualche spinello, beve alcolici. Litiga con il fratello, sperpera il denaro ottenuto con la vendita della casa dei genitori, litiga con i datori dei lavori saltuari che trova. Dorme in stazione a Porta Nuova, finisce alla San Vincenzo, ed è all’epoca che conosce la Marchi (siamo nel 1997), diventa il suo amante, anche se aveva 22 anni di meno. Ma quando lei decide di lasciarlo, un anno dopo, lui la picchia le scaraventa addosso un ferro da stiro. Per quell’episodio prenderà due mesi per lesioni personali. Lei lo denuncia parecchie volte, i carabinieri lo cercano per l’elezione di domicilio, ma lui non si fa trovare dorme in macchina e si apposta con essa davanti al cimitero. Sa che la donna va ogni giorno sulla tomba del figlio ed è lì che sul piazzale del camposanto l’ammazza. «Mi ha guardato in modo canzonatorio, sarcastico, mi ha detto “è andata come è andata“. Non ho più capito nulla, l’ho colpita e lei non ha detto neanche “a“. Era immobile, attonita, assente, l’ho colpita ancora, lei continuava a guardarmi fisso, nessun grido, nessun lamento. Ho visto il sangue, l’ho scossa con le mani e ho continuato a colpirla. Poi ho buttato il coltello in un cassonetto lì vicino, sono tornato alla macchina di Wilma, la portiera era chiusa e lei era seduta al volante, ho aperto la portiera e lei mi ha fissato muta e io sono scappato via», disse allo psichiatra Fattorelli, facendo un lucido e circostanziato racconto.

L’omicida poi andò a costituirsi in questura: «Sono arrivato in questura mezz’ora dopo, ho guidato piano piano. Ero sconvolto. Non ho pensato di chiamare io l’ambulanza, mentre ero sul posto». Il coltello, disse lo aveva acquistato per farsi i panini in auto, visto che ci viveva sul mezzo. Ce lo aveva in tasca perchè era convinto che se avesse spaventato Wilma avrebbe potuto avere una spiegazione sulla fine della storia: «Dovevo avere da lei una spiegazione per i suoi comportamenti nei miei confronti, capire perchè mi rifiutava». Ed invece mise fine alla sua vita.

La perizia psichiatrica riconobbe a Fattorelli un disturbo borderline di personalità che insorto nell’adolescenza ha continuato ad esprimersi nel corso della sua esistenza ed è esploso con sintomi gravi. Ma soprattutto aveva scritto il dottor Ribotti: «C’è la probabilità che possa emettere per il futuro nuovi fatti, previsti dalla legge, come reato». E concludeva: «Il comportamento tenuto in carcere da Fattorelli e il suo atteggiamento con gli altri lasciano intravedere alcune possibilità di un suo recupero alla vita sociale, ma innanzitutto il soggetto dovrebbe mostrarsi disponibile ad un trattamento terapeutico». L’esperto evidenziava anche: «Le varie esperienze condotte da terapeuti nella cura del disturbo borderline di personalità si sono dimostrate particolarmente lunghe e spesso poco efficaci, sono anche stati però segnalati casi di risposta positiva. Il nocciolo del problema è risultato essere la capacità di fornire ai pazienti un Io ausiliario, attraverso farmaci, psicoterapia e terapie psichiatriche residenziali».

 

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Robotti suggeriva di far accedere il paziente a provvedimenti terapeutici prolungati da condursi in ambiente comunitario e sicuro e professionalmente competente. Ma Fattorelli di farsi curare non ne voleva sapere. Era refrattario alle terapie, e ancor di più alla psicoterapia. Ma chiedeva di espiare le sue colpe «per essere aiutato a riprendere la sua vita». Teneva con sè in carcere la foto della sua vittima, ritagliata dal giornale che aveva riportato del delitto. «È incapace di affrontare qualsiasi tipo di abbandono, reale o immaginario, salvo reagire in maniera impulsiva o con la convinzione di essere condannato a vivere in un clima dominato da persistenti cronici sentimenti di vuoto interiore ed esteriore». E per lui, quei vuoti, vanno eliminati, eliminandone le cause, le persone..

Alessandra Vaccari

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