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L'intervista

Paolo Facchinetti: «L’allieva morì di fame: è il peso della mia vita»

Maestro, poi professore, per 41 anni e 6 mesi. Costretto alla pensione. Per i suoi ex studenti è tuttora un mito: «Li stupivo con i “rafforzanti didattici”». Il vescovo Giuseppe Carraro si tolse dal capo lo zucchetto e glielo donò: «Avevo evitato i refusi battendo a macchina l’omelia»
Paolo Facchinetti, 71 anni, ex maestro nelle scuole elementari e poi docente negli istituti superiori Fermi e Marconi
Paolo Facchinetti, 71 anni, ex maestro nelle scuole elementari e poi docente negli istituti superiori Fermi e Marconi
Paolo Facchinetti, 71 anni, ex maestro nelle scuole elementari e poi docente negli istituti superiori Fermi e Marconi
Paolo Facchinetti, 71 anni, ex maestro nelle scuole elementari e poi docente negli istituti superiori Fermi e Marconi

Il maestro Paolo Facchinetti, il professor Paolo Facchinetti resta docente anche se è in pensione da 13 anni. Nel 2010 il provveditore agli studi, Giovanni Pontara, lo mandò a chiamare. Erano stati compagni di banco alle medie nell’istituto Don Mazza e alle magistrali Carlo Montanari e poi compagni di corso all’Università di Padova.

«Paolo», gli disse il dirigente scolastico, «insegni da 41 anni e 6 mesi. Non posso tenerti, hai raggiunto il limite». E Facchinetti, controvoglia, dovette dimettersi. Ma una decina di volte l’anno, in pratica quasi tutti i mesi, i suoi ex alunni lo rimettono in cattedra. «Organizzano apposta incontri conviviali di classe anche dopo un trentennio. Non mi sottraggo mai, vado volentieri. Spesso sono l’unico docente che partecipa. Fra qualche sera ne ho in agenda un altro, stavolta verrà anche la collega che insegnava microbiologia».

«Tu es sacerdos in aeternum» era la formula tratta dal salmo 110 con cui un tempo venivano ordinati in latino i preti, nel suo caso «magister in aeternum», e Facchinetti lo sa bene, essendosi laureato in lettere con una tesi su un ventennio della bimillenaria storia della Chiesa, quello dal 1750 al 1770, prima delle soppressioni decise da Napoleone Bonaparte, che abolirono istituti e associazioni ecclesiastiche, vietarono ai preti di vestire la talare e ai monaci d’indossare il saio, decimarono parrocchie e ospedali della pietà, incamerarono i beni ecclesiastici.

Facchinetti, 71 anni, è collaboratore volontario dell’Ufficio pastorale scolastica della curia di Verona, diretto da don Domenico Consolini, dal quale dipendono gli oltre 450 insegnanti di religione della provincia. Dopo aver portato a scuola i nipotini Pietro e Alice, vi passa le sue mattinate, tranne il sabato e la domenica. Aveva svolto il medesimo servizio in gioventù, quando il vicario vescovile per la pastorale era l’abate di San Zeno, Ampelio Martinelli, il suo parroco. Come sosteneva la scrittrice Lalla Romano, da vecchi si ritorna sempre nel luogo dal quale non si è mai partiti.

Facchinetti, primogenito di Amedeo, rappresentante della Pellini caffè che morì a 59 anni per un aneurisma, lasciando soli la moglie Tosca Sometti e i cinque figli, appartiene all’ultima, o forse penultima, generazione per la quale i sacerdoti hanno contato qualcosa nella loro vita. «Se sono qui a parlare con lei, è perché lo ha voluto don Giovanni Calabria. Io non sarei nemmeno dovuto nascere».

Che accadde?
Al sesto mese di gravidanza mia madre ebbe un’imponente emorragia. Stavano per ricoverarla all’ospedale, già si prospettava un raschiamento. Mio zio Igino Sometti, uno dei primi fratelli laici calabriani, corse alle 7 di mattina nella chiesa di San Zeno in Monte e disse al futuro santo: «Padre, mia sorella rischia di perdere il bambino e di morire». Don Calabria lo tranquillizzò: «Non preoccuparti». In quel momento aveva accanto a sé un giovane medico, il ginecologo Aldo Martinolli, che sarebbe diventato primario alla Maternità di via Moschini, proprio quella in cui nacqui io. «Va’ a visitarla», gli ordinò il prete. La mia famiglia abitava in vicolo Scala Santa, ai piedi della collina su cui sorge la Casa Buoni Fanciulli. Martinolli scese a piedi e bussò alla porta. Disse a mia madre: «Si metta a letto, stia in piedi il meno possibile e preghi tanto». Dopo tre mesi la mamma mi diede alla luce. Don Calabria avrebbe voluto battezzarmi, ma lasciò la precedenza al parroco di San Giovanni in Valle. Partecipò al rito.

Perché ha fatto il maestro?
Per amore. Nel 1974 ero nel Car dell’Aeronautica militare a Casale Monferrato. Ogni due mesi ci davano tre giorni di licenza per tornare a casa. Ma io non potevo stare così tanto tempo senza vedere la mia morosa (Silvana Bragantini, che ha sposato nel 1976, ndr). M’iscrissi al concorso magistrale solo perché dava diritto a tre giorni di permesso. Arrivai primo su 1.000 candidati, o forse 1.500. Nel 1975 entrai subito in ruolo.

Dove?
A Santa Maria in Stelle. L’unico maestro. Nel circolo didattico noi maschi saremmo stati in cinque, con 45 maestre.

E poi?
Cinque anni a Novaglie, altri cinque a San Massimo. Quindi passai alle superiori: un breve periodo a Lonigo, 10 anni al Fermi e 13 al Marconi.

Come mai nella scuola primaria ci sono sempre stati pochi uomini fra gli insegnanti?
Professione poco retribuita: non ci mantenevi la famiglia. Era considerato un lavoro di serie B. Aveva perso il prestigio dei tempi del maestro Perboni di Cuore, quando le tre autorità riconosciute erano il padre, l’insegnante, il parroco. Comunque, non posso lamentarmi di aver avuto, alle Berto Barbarani, l’indimenticabile maestra Dalla Costa.

Perché i suoi ex allievi, delle scuole di ogni ordine e grado, si ricordano ancora di lei?
M’illudo che dipenda dal clima particolare che sapevo instaurare nelle classi dove insegnavo italiano e storia. Creavo fra insegnante e discenti un rapporto informale.

Si spieghi meglio.
C’entrano quelli che la professoressa Annamaria Castelletti, mia insegnante di didattica alle Montanari, chiamava i «rafforzanti didattici». Interventi inaspettati, a effetto, durante le lezioni. Esemplifico: sto parlando di Giovanni Pascoli e chiedo a uno studente della provincia: come dite «poesia» voi di Buttapietra? Quello risponderà, sconcertato: «Poesia». E io: a Verona invece diciamo «poesia». 

Mi pare una cazzata, perdoni il termine oxoniano.
Certo. Ma ho creato uno scompiglio mentale, al quale lei assocerà per sempre la figura di Pascoli. Erano trucchi che studiavo in anticipo. Le lezioni, allora, si preparavano, mica s’improvvisavano come oggi.

Di qui la sua fama di battutista.
«Se vi serve qualcosa, compratevela». «Hai bisogno di una mano? Ne hai due attaccate alle braccia». È il principio del «castigat ridendo mores», debitore del «ridentem dicere verum: quid vetat?», locuzione di Orazio. Dire la verità ridendo: che cosa lo vieta? Con un sorriso fai entrare in testa concetti che, pronunciati seriamente, scivolerebbero via. Alle elementari mi facevo chiamare maestà, anziché maestro. Oggi incontro ex alunni che ancora si rivolgono a me con quel titolo regale.

Nessuno le rimproverava lo spirito di patata?
No, mai. Alle superiori avevo fondato l’Aba, associazione bifidi anonimi. Agli allievi era consentito farmi trovare le spiate nel registro di classe: «Lorenzetto ieri è andato a un festino, non ha studiato». Bene, venga fuori Lorenzetto. Era un modo non dichiarato per schivare le micidiali interrogazioni a sorpresa. Una volta al Marconi la soffiata anonima mi fu recapitata sulla cattedra da un drone, fatto entrare nell’aula dalla finestra aperta. Conservo un intero album di questi biglietti.

Con chi non studiava, quale metodo applicava?
Davo insufficienze, rimandavo a settembre, bocciavo. L’importante era presentarmi agli allievi super preparato. I compiti in classe li riconsegnavo corretti al massimo entro tre giorni, certi miei colleghi lasciavano passare un mese. I concetti li richiamavo alla lavagna sotto forma di schema. Gli Uffizi a Firenze e Brera a Milano erano le mete preferite delle gite scolastiche. Perché quel dipinto è bello? Perché quel dipinto è brutto? Scrivetemelo. Magari sceso dal treno mi scappava un «guardate Milano», cioè «guardatemi l’...». Rinforzante didattico.

E pensare che oggi si occupa degli insegnanti di religione.
Quando ancora ero studente universitario, battevo a macchina le omelie del vescovo Giuseppe Carraro. Le vergava con la stilografica sul retro delle buste ricevute per posta. Gli portavo il testo dattiloscritto. Lo correggeva e me lo riconsegnava: «Ribattilo, per favore». Un giorno, dopo cinque volte che ripetevo l’operazione, persi la pazienza: eccellenza, se però al prossimo giro non troverà neanche un refuso, dovrà regalarmi il suo zucchetto. Gli portai la sesta versione. Lesse con attenzione. Non apportò alcuna modifica. Si tolse lo zucchetto dalla testa, me lo consegnò e uscì dalla stanza. Conservo nel cassetto della scrivania il copricapo di un futuro santo.

All’attuale vescovo Domenico Pompili servirà un dattilografo? 
Lo accolsi la prima volta che venne a Verona, settembre 2017. L’Ufficio pastorale scolastica lo aveva invitato a parlare agli insegnanti di religione radunati nel teatro Ristori. Un fenomeno: 90 minuti di conferenza sul neoumanesimo, senza consultare appunti scritti, un’oratoria avvincente. Finito l’incontro, gli chiesi se volesse visitare qualche monumento. «Puoi portarmi da don Giampietro Fasani?», rispose. Il parroco di Villafranca, gravemente malato da tempo, era ricoverato all’ospedale di Borgo Trento: sarebbe morto di lì a cinque mesi. Si erano conosciuti a Roma, alla Conferenza episcopale italiana, quando Pompili era direttore dell’ufficio nazionale per le comunicazioni sociali e Fasani economo generale. Stette al suo capezzale per più di un’ora. Finita quella visita, accadde un fatto che considero profetico.

Quale fatto?
Mancava un’ora e mezza alla partenza del treno per la Capitale. Monsignor Pompili mi pregò di condurlo a San Zeno. Non aveva mai visto la basilica. Erano le 18.30, la trovammo già chiusa. Gli offrii un succo d’ananas. Seduto al tavolino esterno del bar sulla piazza, stette per 20 minuti a contemplare la facciata della chiesa, senza dire una parola. Chissà se in quel momento ebbe il presentimento che nel giro di appena un lustro sarebbe diventato lui il 128° successore di quello Zenone venuto dalla Mauritania, che nel IV secolo dopo Cristo fu l’ottavo vescovo di Verona.

I suoi figli come se la cavavano a scuola?
Figlie. Bene. Elena, 44 anni, è maestra elementare. Anna, 40, ha studiato psicobiologia clinica all’Università di Padova. Il giorno della laurea, con la corona d’alloro in testa, mi disse: «Ciao, papi, ci rivedremo quando sarai morto. Fra una settimana entro in un monastero di clausura». Sua madre ed io restammo interdetti.

Non stento a crederlo.
Era fidanzata da due anni con Pietro. A Padova si manteneva facendo la baby-sitter e prestando assistenza a una ragazza disabile. Ci raccontò che era andata nella biblioteca benedettina di Santa Giustina, in Prato della Valle, ed era stata rapita da quel mondo. Un monaco le consigliò: «Va’ dalle mie consorelle di Poffabro». Prese l’auto e andò. Ora vive lì.

Dov’è Poffabro?
Sulle Prealpi carniche, in Friuli, sopra Maniago. Fu il veronese Sennen Corrà, vescovo di Pordenone, a chiedere alle benedettine di insediarvisi. Offrì loro un vecchio edificio.

Le è permesso di rivederla?
Tre o quattro volte l’anno. Non è una clausura stretta, con le grate. Non porta il velo. Ai tre voti di povertà, castità e obbedienza, ha aggiunto il quarto: stabilitas loci, cioè ha promesso di restare in quel luogo sino alla fine. Raramente mi capita di salutarla quando con altre suore viene da un dentista dell’Est veronese, che le cura dalle 12.30 alle 15, mentre l’ambulatorio è chiuso.

Suor Anna è felice?
Sua madre e io a Poffabro la vediamo recitare il vespro con il sorriso sulle labbra. Allora ci piace pensare che si trovi nel posto giusto.

Perché i ragazzi d’oggi sembrano più infelici di un tempo?
Lo smartphone ha cambiato le loro teste. Ha rimpiazzato i rapporti umani. È un intermediario che diventa il tuo alter ego, uno strumento incontrollabile e incontrollato che veicola falsità, favorisce il bullismo, rappresenta una sessualità distorta. Non a caso il governo francese sta correndo ai ripari.

Quindi, se avesse dei figli adolescenti, lei come reagirebbe?
Ormai il telefonino c’è, non puoi pensare che sparisca. Si tratta di stabilire delle regole per limitarne l’uso e di prestare molta attenzione ai sintomi del disagio. Ogni generazione manifesta i suoi. Bisogna essere bravi a coglierli. A volte mi si presentavano in classe in forme così devastanti che diventava impossibile ignorarli.

Mi faccia un esempio.
Ricevimento in aula professori. Arriva una madre, mi chiede del figlio. Le rispondo che se la cava benino. Lei ribatte: «Allora mi farebbe un favore? Può informarlo che sono incinta, ma che il bambino è di un altro uomo, non di suo padre?». Resto basito: signora, è una faccenda delicata, chiamiamo suo figlio e parliamogli. Lo convoco, gli spiego la situazione. Lui reagisce gelido: «Che fossi stupida lo sapevo, ma che fossi anche puttana è una novità». Gli rifilo un manrovescio in faccia, accompagnato da un’ammonizione: non permetterti mai più di rivolgerti così a tua madre in mia presenza. Finiscono le lezioni. Sto per tornare a casa, ancora scosso. Da dietro una colonna sbuca il ragazzo, mi corre incontro e mi abbraccia piangendo: «Profe, ma perché non sei tu il mio papà?».

Che morale ne trae?
Non si ama e non si castiga. Ci si ignora. Invece un figlio preferisce un ceffone necessario alla flagrante indifferenza.

Gli studenti di oggi si tagliano le braccia e le gambe per punirsi.
Non sono molto diversi dagli adulti che ricorrono ai tatuaggi e al piercing. Fanno una cosa perché la fanno tutti, l’importante è sentirsi uguali agli altri, accettati dal gruppo. L’autolesionismo c’era anche ai miei tempi. Io persi un’alunna anoressica. Andai a trovarla nella clinica di Garda dov’era ricoverata. Non la riconobbi. Fu lei ad attirare il mio sguardo: «Profe, sono qui, sono io...». Mi sedetti accanto al letto. Aveva smesso di mangiare dopo che il fidanzatino l’aveva lasciata. Pensava di essere grassa, ma non era vero. Di quel colloquio non dimenticherò mai la frase finale: «Profe, ma davvero lei crede che mi piaccia morire?». Spirò il giorno dopo. Aveva 17 anni. La considero la peggiore sconfitta della mia vita.

Tornerebbe in cattedra?
Domani mattina.

Stefano Lorenzetto

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