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LA VEGLIA

In via Bassetti il dolore e la rabbia per Madiha : «Lei non tornerà più»

Amici, conoscenti e sconosciuti che hanno appreso dai giornali: un funerale laico per Madiha FOTO MARCHIORI
Amici, conoscenti e sconosciuti che hanno appreso dai giornali: un funerale laico per Madiha FOTO MARCHIORI
Veglia via Bassetti (video Marchiori)

Sono le 21. Ed è una bella sera di fine maggio, senza afa, con ancora le tracce di un tramonto glorioso. Via Bassetti: quel palo dell'illuminazione si nota subito, è coperto di fiori. Di disegni, biglietti, messaggi fissati con lo scotch. Lì, o poco distante, Madiha Rahmad, 29 anni, è stata falciata dall'auto, guidata da un quasi coetaneo, ubriaco. La prima ad arrivare è una donna minuta, Bruna Soares, brasiliana, operatrice scolastica. «Lei è stata la baby sitter del mio figlio più piccolo», mormora quasi temesse di disturbare. «Lo faceva per amicizia anche se, certo, le davo un compenso... Io comincio presto il lavoro, per me era un aiuto prezioso». La ragazza venuta dal Marocco aveva poi trovato un impiego più stabile. «Siamo rimaste amiche, sui social abbiamo continuato a scherzare. Quando ho saputo il mio primo pensiero è stato "si sono sbagliati, non può essere"...». Bruna abbassa gli occhi.

Funerale laico. Arrivano alla spicciolata. Amiche, amici, gente del quartiere, qualche decina in tutto. Radunati senza bisogno di annunci, in silenzio. Qualcuno piange, con pudore, abbracciato ad un altro essere umano. Si accendono i lumini, come per un funerale laico, senza una religione definita. C'è nell'aria il dolore, ma si percepiscono anche la rabbia e l'impotenza. Il ragazzo, colui che ha investito Madiha, è formalmente e sostanzialmente libero. «Non è un buon messaggio quello che sta passando nel "gergo" comune», dicono ad una voce Patrizia Pisi e Stefano Benato, lei vicepresidente, lui responsabile per il Veneto dell'Associazione Vittime di incidenti stradali sul lavoro e per malasanità. Con loro portano lo striscione della memoria, lo stesso che li accompagna, da dieci «anni di battaglie contro una strage continua». Una delle foto raffigura Alberto, il loro figlio.

«Dura lex» Alla fine, tutte le facce impietrite di una sera di quasi estate vogliono dire la stessa cosa. «Ho la pelle d'oca nello stare qui, non è accettabile tutto questo. Non è normale il non potere passeggiare senza paura, vorrei tanto che i giovani lo capissero». Parole scontate, se non venissero dalle labbra di Alida Armas, mamma di Nicole Perina, vittima della strada il 14 novembre 2021. Anche lei abbassa gli occhi e fissa lo sguardo sui lumini accesi.Eppure c'è la legge. Dura, forse giusta ma difficile da digerire. «Non si arresta una persona solo perché ha commesso un reato grave. Deve esistere almeno una delle circostanze previste dal Codice a sostegno di una misura cautelare: e nel caso del conducente dell'auto che ha investito e ucciso la giovane donna non c'erano», spiegava poche ore prima il Procuratore capo reggente, Bruno Bruni. «Non vi era pericolo di fuga, il veicolo è stata fermato a poca distanza dall'incidente, la reiterazione nei reati colposi non è configurabile e non vi è il rischio di inquinamento delle prove. Se fosse fuggito ci sarebbero stati i presupposti per un fermo. Ma non è accaduto». «Il guaio è questa sorta di "liberi tutti", in particolare dopo il Covid», ribadisce Stefano Benato. «Chiedevamo divise, palette, prevenzione. Durante la pandemia ci sorvegliavano con i droni, ora siamo all'opposto, c'è troppa tolleranza». Per dirlo con le parole di Bruna Soares: «C'è ben poco da difendere in un caso come questo. Si ammette: ho sbagliato, quindi pago». «Dura lex, sed lex», sostenevano i latini. È dura ma è legge. Nonostante le conquiste (sudate) del reato di omicidio stradale. E qualche, più o meno riuscita, modifica al Codice della Strada. Ma in questa sera di maggio, mentre ai bordi del maledetto marciapiedi continuano a sfrecciare le auto, non c'è giurisprudenza che tenga. Nessuno inveisce. Ma la delusione si tocca nell'aria.

Cuore Michele si è appena sciolto dall'abbraccio di un amico, ha il dolore scritto sul volto. «L'unica realtà? Madiha non ritornerà». Poi lascia scorrere la rabbia: «Stiamo in una società sbagliata, disagiata, servirebbe un'educazione vera, a monte...». Scuote la testa: «Ma quante volte l'abbiamo detto?». «Ci sono Paesi in Europa in cui ogni fine settimana la gente si "distrugge" nel bicchiere ma torna a casa con i mezzi pubblici». Discorso troppo lungo, che porterebbe lontano. Inutile, purtroppo, in una sera così.Mohamed Ilomari, marocchino, italiano con cittadinanza («Sono qui dal 1991»), curatore dell'orto alla parrocchia di Santa Croce, non ha un motivo particolare per essere qui: «Sono venuto per il cuore, ho letto, ho sentito...», ammette. Poi s'informa: «Da dove veniva quella povera ragazza?». Dalle parti di Casablanca, prefettura di Mers Sultan. Annuisce, come fa chi conosce il posto da cui viene. «La vita è così», mormora. Scusa Mohamed, ma lo dice anche il Corano? «Certo, non è nostra. Questo, noi qui, è solo un passaggio». Resta un fatto: «Ci dev'essere un'assunzione di responsabilità. Ma ora penso alla famiglia di quella ragazza», confida da Roma l'Imam Mohamed Guerfi, uno dei riferimenti per la comunità islamica veronese. Bruciano i lumini, nessuno parla. Probabilmente ciascuno prega, al proprio modo. Alla fine le preghiere si assomigliano tutte, non importa di quale religione, eterna ricerca di una risposta che nessuno possiede. Ha ragione, a ben vedere, il saggio marocchino da tempo italiano: «La vita è così». Restano i dubbi. E il dolore, affidato nella notte ad Allah, per una ragazza che voleva essere viva.. .© RIPRODUZIONE RISERVATA

Paolo Mozzo

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